Cuba

Una identità in movimento


"Noi, il Popolo Taíno, siamo ancora qui"

Carlo Nobili


... la espada, la cruz y el hambre
iban diezmando la familia salvaje
(Pablo Neruda).

We have our traditional taino native american religious faith.
We will always respect our beliefs,
that were handed down to us by our ancestors
in their traditional way of life.
We traditionalists still follow in their sacred foot steps
(Arocoel Ciba Guanikeyu, Cacique della Taino Tribe of Jatibonico of Boriken).


I Taíno ritrovati

Per noi Europei, ma per l'Occidente in generale, si può dire che la storia dell'America cominci proprio dai Taíno di Kiskeya (attuali Haiti e Repubblica Dominicana), di Cubanacan (Cuba) e di Boriken (Puerto Rico). Quest'incontro, che può essere considerato esemplare e il più straordinario dell'intera storia occidentale, ebbe però un esito drammatico e rappresentò, di fatto, una anticipazione dei massacri di cui è costellata la storia delle periferie del mondo. Sottomessi e vittime delle brutalità della colonizzazione spagnola, della fame e delle malattie importate dagli Europei (vaiolo, morbillo, scarlattina, ecc.), maltrattati e sfruttati nelle encomiendas (riconosciute giuridicamente con le Leggi di Burgos nel 1512), i Taíno affrettarono il loro stesso destino adottando il suicidio di massa e l'aborto come armi atte a fronteggiare e a riscattare un presente privo di riferimenti culturali conosciuti e di margini di azione che potessero permettere di comprendere e intervenire sulla realtà.

I Taíno si estinsero nel giro di pochi anni e quel che oggi noi conosciamo di loro lo dobbiamo in massima parte alle cronache del tempo, soprattutto quella di Ramón Pané, un frate catalano dell'Ordine di San Geronimo (Relación acerca de las antigüedades de los indios), di Bartolomé de Las Casas, primo Vescovo delle Indie e difensore degli indios (Historia de las Indias; Apologética historia de las Indias; Brevísima Historia de la Destrucción de las Indias) e di Gonzalo Fernández Oviedo y Valdés, sovrintendente reale alla fusione dell'oro (Historia general y natural de las Indias), oltre che alle oggettive, anche se parziali, informazioni desumibili attraverso gli scavi archeologici dell'area circumcaribica.

Attratti da subito dalle alte culture dell'America (Aztechi, Maya e Inka), per lungo tempo abbiamo dimenticato questa cultura, ignorando di indagare la sua storia e mettere nel giusto rilievo che si trattava di una popolazione che già prima dell'arrivo di Colombo si era evoluta a livello sociale in una vera e propria entità politica molto simile, per complessità, all'idea di stato.

Di profonda spiritualità e in possesso di una concezione dell'universo alquanto raffinata, così come la loro arte, i Taíno, sono stati come "riscoperti", e prova di questo interesse nei confronti della "prima cultura americana" sono state alcune mostre che hanno costituito senza alcun dubbio gli esempi scientifico-didattici di maggior enfasi di questi anni:


L'eredità...

I Taíno hanno lasciato tracce piuttosto evidenti nella cultura dei Caraibi: il bohío, la tipica capanna indiana fatta di foglie di palma e di legno si è conservata come la caratteristica abitazione del contadino cubano (il campesino) e in alcune zone della Repubblica Dominicana e Haiti. Prezioso e assai vasto è il contributo terminologico lasciato dai Taíno per designare piante, alberi, frutti e oggetti. Batey, il cortile dove veniva praticato il gioco della palla tra i Taíno, indica ora a Cuba e nella Repubblica Dominicana l'insieme degli edifici, dei capannoni e dei cortili dello zuccherificio, huracán (il terribile vento caraibico), hamaca (l'amaca), canoa (quelle taíno era capaci di portare fino a cento uomini), barbacoa (ossia, il barbecue), conuco (l'orto, o comunque un'area riservata alla coltivazione di piante alimentari), guajiro (il contadino povero), fotuto (il tipico flauto usato dal guajiro), hicotea (la tartaruga d'acqua dolce) e manatí (il manato o lamantino — Trichechus manatus) sono tutti termini entrati, non solo nelle lingue caraibiche, come imprestiti linguistici indiani.


... nella cucina...

Che cosa dire della cucina caraibica, dove protagonisti sono gli stessi vegetali usati ampiamente nell'alimentazione indigena? Tra i cereali: il mais (Zea mais), che deriva il suo nome da Maicí o Maisí, la zona, nella parte nordorientale dell'isola cubana, di più intensa produzione; tra i tuberi:

  • la malanga (ossia la Xantosoma o Cavolo del Carite — Xanthosoma sagittifolium),
  • il boniato (ossia la patata dolce — Batata edulis o Ipomoea batatas).

Tra la frutta:

  • l'anana (l'ananas — Ananas ananas o Ananas comosus),
  • l'aguacate (l'avocado — Persea gratissima),
  • la guayaba (Psidium guayava),
  • la papaya (Carica papaya),
  • la guanábana (l'annona — Annona muricata).

Un discorso a parte merita la yucca (ossia, la maniocaManihot esculenta): per le scarse cure richieste nella sua coltivazione, essa era senz'altro, tra tutti i tuberi, l'alimento più consumato nella dieta dell'indio, il quale confezionava con essa un pane, conosciuto con il nome di cazabe.

Di questi vegetali non sa fare a meno il "moderno" palato dell'uomo dei Caraibi, ma il cubano sa apprezzare non poco anche un piatto tipicamente indigeno a base di carne di jutía o hutía (Capromys pilorides). E infine ci chiediamo, non è forse ancora valida, per illustrare il concetto/ipotesi di un paradigma caraibico e per rimanere sempre nel campo della gastronomia, l'immagine usata da Fernando Ortiz, allorquando, riferendosi all'identità culturale della sua isola, diceva che questa è come l'ajiaco (un piatto di origine indiana molto popolare e apprezzato a Cuba)? Sorta di minestrone ed esempio archeologico della storia gastronomica cubana, l'ajiaco è un miscuglio di elementi diversi, peperone — dal cui nome indigeno, ají (Capsicum baccatum), deriva il nome della pietanza —, patate, malanga, banane, mais, boniato, manzo, pollo e carne secca, tutto bollito. Ortiz diceva che questo paradigma è come una pentola di terracotta messa al fuoco dei Caraibi nella quale si sono mescolate tante cose. Il risultato della "lunga cottura" è una cosa diversa, ovvero il prodotto-sintesi di tutte quelle cose: una transculturazione, appunto.


... nella toponomastica, nella botanica e...

Ricca è la toponomastica di termini indiani: a Cuba troviamo una cittadina chiamata Batey situata a nord dei Monti Cuchillas de Toar, una Batey Durano a sud degli stessi monti e un'altra nella Provincia di Holguín, nella Repubblica Dominicana si contano oltre quaranta cittadine con questo nome e la stessa capitale di Cuba, La Habana, deve il suo nome alla parola taíno "savannah", che significa pianura priva di alberi.

Sarebbe troppo lungo un elenco di termini botanici, perché tante sono le specie vegetali conosciute con il nome indigeno; qualche esempio, oltre a quelli già menzionati nella cucina:

  • guayacán (il guaiaco — Guayacum officinale),
  • cuaba (il legno di rosa o sandalo delle Indie — Amyris balsamifera),
  • guanábana (l'annona — Annona muricata),
  • maní (l'arachide — Arachis hypogaea),
  • maboa (la Cameraria latifolia),
  • jagüey (il Ficus membranacea),
  • cupey (la Clusia rosea),
  • cuajani (il Prunus occidentalis) e
  • caoba (il mogano — Swietenia mahogani).

Ma andando oltre, viene in mente il tabacco (Nicotiana tabacum). Il "regalo de la naturaleza al hombre", come l'ha chiamato Fernando Ortiz nel suo Contrapunteo..., è pianta indigena così come il suo nome, che è rimasto quasi invariato nel corso dei secoli in tutte le lingue del mondo.


... nella mitologia

Così come l'elemento indiano ha un suo spazio nel vodu di Haiti, a Cuba le figure degli indiani (immagini e statuine) trovano un loro posto negli altari degli orichas santeros e la loro iconografia è piuttosto diffusa e manifesta in tutto il paese. Tracce dell'eredità taíno sono ovunque e quindi ravvisabili anche nella letteratura orale: di origine india è a Cuba uno dei miti più vecchi e più diffusi, quello del güije o jigüe. Il mito, nel processo transculturativo, ha ricevuto l'influenza dell'africano, per cui il güije si è trasformato, da spiritello indio delle acque dolci, in una figura di negretto nudo che appare soprattutto a coloro che si bagnano nei fiumi durante la Settimana Santa.

Mitologico è diventato anche il racconto di Hatuey, il fiero capo taíno (considerato el primer rebelde del continente americano).

Nella zona che va da Punta Maisí a Guantánamo, sulla costa meridionale, e a Puerto Gíbara, sulla costa settentrionale dell'isola cubana — dove numerosi sono caseríos (nuclei familiari di discendenza indiana) —, ma soprattutto a Caridad de los Indios, nei pressi di Yateras — dove assai vasta è la comunità (oltre mille persone secondo stime recenti) costituita da discendenti indocubani ben riconoscibili grazie ai caratteri somatici —, è possibile raccogliere ancora oggi testimonianze di letteratura orale indigena, come miti, canti e leggende, si veda, per esempio, la pagina WEB:


La "restaurazione" della Nazione Taíno

Varie associazioni taíno (The Taino Inter-Tribal Council Inc., The Taino Tribal Council of Jatibonuco, United Confederation of Taino People, Consejo de Kacikes y Nitaínos, ecc.) sono nate in questi ultimi anni allo scopo di servire da strumento per promuovere la cultura nativa americana e mettere in risalto, proteggere e preservare l'identità e l'eredità morale, religiosa e artistica dei Taíno. Sostanziale sta diventando anche la stessa presenza di queste associazioni rivendicative e revivalistiche nel WEB, per merito non già di musei etnografici o delle accademie, ma grazie ad un grande, anche se non ancora capillare (se confrontato con il fenomeno degli Orishas in rete), lavoro di divulgazione operato dalle varie associazioni, anche se talvolta questa presenza ha un carattere scientifico piuttosto marcato, come nel caso del sito Internet creato nel New Jersey dal cacique Pedro Guanikeyu Torres (Presidente del The Taino Inter-Tribal Council Inc. e presunto discendente del leggendario capo Orocobix del Villaggio di Yucayeke di Jatibonico), dove ci si è avvalsi della collaborazione e del sapere di Ricardo E. Alegría, archeologo portoricano, e di Martinez-Crusado, biologo del Mayaguez College (Universidad de Puerto Rico) che lavora sul DNA taíno e collabora nel The Taino Genealogy Project alla ricostruzione genealogica di questo popolo.

Il grande sforzo messo in atto dalle associazioni taíno, con il fine di combattere (al grido "¡No me dejen fuera!"), quello che viene considerato il "mito dell'estinzione della nazione taíno", ha previsto in questi anni, oltre alla pubblicazione in Rete di Mailing List, Newsletters e riviste elettroniche

  • El Boricua Newsletter El Paso;
  • Home Town Paper for NuYoRicans;
  • Anacuya Turey' Page;
  • La Revista de la Indierra TainaThe Taino Indian Land Review,

anche una serie di incontri ai quali in genere vengono invitati, per ottenere credibilità e sostegno scientifico, alcuni studiosi di gran fama tra coloro che si interessano al passato indigeno delle Antille. Al Primer Encuentro de Taínos en Cuba, tenutosi a Baracoa tra il dicembre 1996 e il gennaio 1997, hanno aderito, per esempio, oltre a studiosi e cacicchi taíno (Cibanakán, Mayowakanel, Waxerí Hatuey, Francisco Wamá e i suoi figli Idális Anamaniwa, Vladimir Waxei e Francisco Tekína), Ray Petty dell'Universidad de Puerto Rico, Manuel Rivero de la Calle, del Museo Antropológico Montané dell'Avana, uno tra i più noti antropologi cubani, e Alejandro Hartmann Matos, storico e direttore del Museo Matachín di Baracoa.

Altre associazioni, pur senza richiamarsi direttamente all'identità taíno, ne usano la simbologia, come nel caso di Acción Boricua y Caribeña, che, nata nel 1994 all'interno dell'Università della California (Berkeley) ad opera di studenti portoricani, lancia la sua protesta contro i cento anni di "occupazione" statunitense dell'isola di Boriken e contro la detenzione di prigionieri portoricani nelle carceri americane.


Storia o invenzione d'identità?

Ma sono davvero Taíno quelli che reclamano uno "spazio" per promuovere i caratteri della loro cultura finora rimasta per cinquecento anni in una zona liminare e in ombra persino negli studi o piuttosto emigrati caraibici, in special modo Boricuas, decisi a ravvivare o addirittura a inventare una cultura taíno in uno "spazio" in cui, privi della sicurezza di poter realizzare con successo le proprie ambizioni e aspirazioni, serve munirsi della corazza rappresentata da un'identità storica e eclatante? Che tipo di operazione abbiamo davanti? Si tratta davvero di rivendicazione storica di valori ancestrali rimasti taciuti oppure si stanno compattando frammenti d'identità che reclamano, soltanto per provenienza geografica, un "comune ancestrale storico" che non scorre o scorre assai scarso nelle vene? Pur non ignorando l'esistenza di caseríos e un senso etnico delle proprie radici indiane anche a Puerto Rico, viene anche da chiedersi: perché ora, alle soglie del nuovo millennio quando l'individuo non va più, tanto per utilizzare un'espressione di Paul Blanquart, "alle radici ma alle antenne"? E infine: perché sono proprio i Portoricani a promuovere con maggiore convinzione questa identità?

La popolazione portoricana, non va dimenticato, è soprattutto il risultato della fusione dell'elemento spagnolo con quello negro, mentre l'apporto indiano è stato assai scarso. Desta quindi sorpresa che siano i Portoricani ad alimentare questo "sogno americano", loro che, a differenza degli altri Antillani, non riuscirono mai ad organizzare, a parte il tentativo di Lares del 1868 (conosciuto come El grito de Lares) e all'azione di uomini come Ramón Emeterio Betances e Eugenio María Hostos, una lotta rivoluzionaria per la propria indipendenza; loro che non possono nemmeno vantare, come ad esempio i Cubani, uno spiccato interesse nei confronti dello studio delle proprie origini africane; loro a cui gli studiosi hanno da sempre riconosciuto uno scarso senso del passato e un'identificazione con la tradizione molto debole e deficitaria.

Chi promuove questa identità è poi un Portoricano particolare, quello che è lontano dall'isola. Così come gli Haitiani, i Portoricani sono un popolo della Diaspora caraibica; se i primi migrarono, quando ancora la loro identità era profondamente taíno, dapprima a Cuba e successivamente, già nella loro dimensione mestiza, verso la Repubblica Dominicana, le Bahamas e gli Stati Uniti, i secondi — a causa della teoria americana del "destino manifesto" — costituiscono di fatto un popolo per metà diviso (anche demograficamente) tra Puerto Rico e gli States. Come popolo della Diaspora, il portoricano — reso quasi invisibile dalla Storia — ha bisogno di riconoscersi in un'identità forte e cercandola da lontano ne fornisce una anche a coloro che sono a casa. Quella lasciata nell'isola non gli è sufficiente, perché, da emigrante, in parte gli è estranea anche se gli appartiene nel ricordo, negli affetti, nei rapporti di parentela, nella lingua e nella speranza del ritorno.

Ne La Vida Oscar Lewis ha messo ben in evidenza come i Portoricani emigrati, pur beneficiando di condizioni economiche migliori e di un più elevato tenore di vita (minore disoccupazione, maggiore adesione al sindacato e servizi medici garantiti), si sentano — conseguenza della segregazione di cui soffre qualsiasi minoranza, in special modo negli Stati Uniti —, più emarginati e alienati di prima della partenza e soprattutto rispetto a chi è rimasto a Puerto Rico. Questo deve quindi essere nuovamente inglobato nel Sé, o meglio re-incamerato in un'altra identità che funzioni come denominatore comune.

Atabey, Madre delle Acque e Protettrice delle PartorientiTutta l'operazione messa in atto per rivendicare questo denominatore comune, ossia la supposta origine taíno, rispetta fino in fondo il percorso che generalmente, a livello antropologico, avviene allorquando, più che ricostruire, si inventa un'identità, ma siccome non si inventa dal nulla, ci si rifà, ad un tempo storico, in questo caso il prima di Colombo, perché è il tempo a circoscrivere un'identità e a renderla specifica, a renderla, in altre parole, paradigma o modello in cui riconoscersi. Ma ci si rifà anche al mito, in questo caso a quello del Sacro Arcobaleno di Jatibonico degli antichi tempi; questo stesso arcobaleno rosso, giallo e verde è apparso per pochissimi istanti, nel novembre 1996, a tre Taíno dell'isola di Boriken. Vedere un arcobaleno di questi colori, per pochissimo tempo, quando nei Caraibi questo fenomeno è in genere osservabile a lungo, può essere considerato un fatto molto raro e questo fu interpretato come un segnale di profezia: una nuova generazione di Taíno starebbe emergendo da Atabey (nella religione dei Taíno, madre dell'Essere Supremo Yúcahu Bagua Maórocoti, Madre delle Acque e Protettrice delle Partorienti), sotto la guida del vero discendente del Cacicco Orocobix, per l'appunto Pedro Guanikeyu Torres, il quale si sta battendo anche a favore della repatriation (la restituzione, giuridicamente fondata, di beni culturali ai discendenti "diretti e lineari") e contro la vendita all'asta di oggetti taíno:

L'operazione, che ha sicuramente un carattere millenaristico ed escatologico, genera automaticamente, come tutti i processi identitari forti, un'esclusione dell'alterità, anche di quella religiosa. L'associazione The Taino Elders Caney Longhouse, per esempio, invita a diffidare della Santería ("a mixed Euro-African-Taino religion"), la quale ha, secondo Arocoel Ciba Guanikeyu (a cui si deve il testo), il solo scopo di lucrare denaro e sfruttare l'inconsapevole gente taíno ("unknowing Taino people"). Gli Anziani di Caney insegnano che mescolare due religioni diverse non è una pratica molto saggia, perché in molti casi ci si ritrova in un percorso amaro e triste di confusione e disarmonia spirituale

    "... is not a very wise practice, because in many cases this will lead people into a sad bitter path of confusion and Spiritual disharmony".


Sincretismi caraibici

Richiamarsi, spinti dal dolce volo delle Sacre Ali del Guacariga (o Guaracacigaba), alla vera Spiritualità, al ritorno dei Guerrieri dell'Arcobaleno, proclamarsi i Custodi di Atabey (la Dea Madre) equivale a circoscrivere una identità di cui andare fieri, poiché storica, seppur perdente. Al contempo non si può fare a meno di pensare che l'operazione, puntando deliberatamente ad un'idea di purezza e scartando nelle sue ipotesi costruttive tutto ciò che è altro, è un movimento in netta antitesi con il carattere da sempre sincretico e meticcio dei Caraibi. In altre parole, una forzatura antistorica che, "zombificando" la cultura taíno, produce un'identità perimetrata, vera e propria trappola politica ed epistemologica, alla continua ricerca di purezza e autenticità e deliberatamente portata a negare la dinamica storica che rende possibile a qualsiasi identità di essere sempre diversa da quella di ieri, anche se a questa si avvicina geneticamente.

L'identità, lo si è già detto tante volte, non è mai uguale a se stessa, la sua caratteristica primaria risiede nella sua capacità relazionale e i Caraibi sono forse l'esempio antropologico migliore che si possa portare circa le potenzialità creole della cultura. Senza dimenticare che la stessa cultura taíno è un prodotto ibrido — in quanto si consolidò grazie alla riformulazione e al perfezionamento di modelli già sperimentati da chi precedentemente abitava le isole caraibiche (Igneri, Ostionoidi, Macorix, ecc.), si può dire che in questa parte di mondo, grazie agli apporti indigeni, europei, africani e più tardi asiatici, si è concretizzato un modello insuperato di metabolizzazione di elementi e modelli culturali i più diversi fra loro, la cosiddetta "civilizzazione antillana", come l'ha chiamata con felice espressione Rogelio Martínez Furé. L'identità che è nata da questo processo è un "bricolage dialogico", una materia malleabile, plastica, polimorfa, rinnovabile e non certo di natura monoculturale o intransigente come quella dei Taíno in Rete, i quali parlano della loro identità indigena, togliendola dal flusso della creolizzazione e rendendola rigida, perenne e mitica.

L'immagine non è nel server del Sito ma è un link esterno alla URL: http://www.elmuseo.org/taino/tainoimages/daily_zemifront.jpg L'immagine non è nel server del Sito ma è un link esterno alla URL: http://www.elmuseo.org/taino/tainoimages/daily_zemiback.jpgÈ presumibile che già intorno alla prima decade del XVI secolo, periodo in cui la cultura taíno era entrata in contatto sia con gli Europei che con i primi schiavi africani della Diaspora, si erano palesati prodotti transculturativi. Lo zemi (rappresentazione di un essere soprannaturale) conservato oggi presso il Museo "Luigi Pigorini" di Roma, realizzato dalle mani sapienti di quello stesso anonimo artista che confezionò anche la cintura del Museum für Völkerkunde di Vienna, può a giusta ragione essere la sintesi iconografica di quel processo transculturativo già in atto all'indomani della Scoperta. L'oggetto, realizzato con materiali indigeni tradizionali (conchiglia e semi), di provenienza europea (conterie in pasta vitrea e specchi) e africana (corno di rinoceronte), presenta due facce: una, scheletrica, tipicamente riconoscibile come taíno nell'espressione e nella ornamentazione, l'altra, di color marrone, intagliata nel corno di rinoceronte, ha capelli neri e ricci, occhi con pupille nere e iride bianco e fattezze tutt'altro che taíno. Queste due facce, così diverse l'una dall'altra, concedono all'oggetto una doppia, o comunque molteplice identità (iconografica, stilistica e per la provenienza dei materiali).

Quando nel 1542 il Re spagnolo, dando ascolto alle pressioni e alle proteste dei Padri Domenicani, promulgò le Nuove Leggi delle Indie — le quali, abolendo il sistema delle encomiendas, concedevano la libertà ai nativi —, pochi Taíno erano ormai sopravvissuti alla "catastrofe" arrivata dal mare, ma se la società taíno scomparve nell'arco di meno di una generazione, i matrimoni interetnici tra indigeni, Spagnoli e Africani avevano già rapidamente fatto emergere una popolazione meticcia.

Lo zemi del "Pigorini", che annuncia una nuova fase nell'arte e nella cultura dei Caraibi, può essere considerato senza dubbio uno dei primi prodotti ibridi di questa nuova società, poiché riflette una sensibilità verso quei processi transculturativi che da sempre caratterizzano, come si è detto, questa parte di mondo.


Tratto da: NOBILI Carlo, "Noi, il popolo Taíno, siamo ancora qui: gli elementi di una eredità e i processi d'invenzione identitaria della prima cultura americana incontrata da Colombo", in Louis-Philippe Dalembert, Carlo Nobili e Daniela Zanin (a cura di), I Caraibi prima di Colombo: la cultura del popolo Taíno, Roma, Istituto Italo-Latinoamericano, 1998, pp. 69-75.


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