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Cuba |
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Una identità in movimento
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Cuba: politica delle immagini, immagini della politica (Parte I)
Stefano Todini
Premessa
Le frequenti oscillazioni nel flusso di interesse verso il cinema latino americano, da parte della cultura dei Paesi occidentali, hanno determinato in Europa e soprattutto in Italia una episodica quanto frammentaria ricognizione sulla produzione cinematografica del continente sudamericano. Le ragioni di tali lacune ormai annose sono molteplici e non possono essere esclusivamente addebitate al predominio nella distribuzione europea delle pellicole statunitensi o alla pesante influenza di quegli stessi codici di rappresentazione audiovisiva made in U.S.A. che hanno, sin dagli anni Quaranta e a senso unico, per dirla con Wim Wenders "colonizzato il nostro inconscio". La citazione del regista tedesco, sia detto per inciso, ci convince particolarmente poiché giunge da un estimatore appassionato di tanto cinema nordamericano, scevro dunque di quei pregiudizi ideologici assoluti che potrebbero condizionare una osservazione critica serena ed obbiettiva. Per altro verso, sembra paradossale il disinteresse palese e consolidato verso la produzione cinematografica dell'America Latina, considerate le analogie stilistiche, le affinità culturali, la prossimità linguistica e i costumi sociali che avvicinano quei Paesi latini, specialmente di idioma ispanico, alla realtà socioculturale dei Paesi mediterranei. Ma non è questa la sede per analizzare una distanza che talvolta si riduce talaltra si allunga, né per valutare le motivazioni di un dialogo sfilacciato, di una mancata risposta dell'Europa — dal vago sapore di aristocratica millanteria — alla richiesta di dialogo culturale prima che commerciale proveniente dall'America Centro-Meridionale; una distanza che i film come il recente Oriundi (1999) del brasiliano Ricardo Bravo provano a cancellare, ricordando la presenza strutturale dei nostri connazionali nei vari Sud del mondo.
In una pur approssimativa ricostruzione di questi afflati di interesse verso l'America Latina dal punto di vista cinematografico (ma il paesaggio non muta se ci riferiamo ad altre manifestazioni artistiche), la caratteristica che emerge è soprattutto la cifra politica che contraddistingue la produzione dei film. Intendiamo, per cifra politica, tanto il contenuto, i soggetti e le tematiche affrontate nella cinematografia latino americana, quanto lo stile degli autori, la riproposta di alcuni canoni del cinema militante che hanno pervaso lo scenario culturale prima europeo e qualche tempo dopo sudamericano. Nel cinema argentino, brasiliano, messicano, cubano — per citare le quattro nazioni di maggior prestigio cinematografico nel continente — ma anche in quello cileno, boliviano, colombiano, venezuelano, peruviano — a partire dagli anni Cinquanta viene conosciuto ed inizialmente emulato il cinema del Neorealismo (Cesare Zavattini sarà ospite a Cuba già nel 1961, contribuendo a stendere la sceneggiatura di El joven rebelde (Il giovane ribelle diretto da Julio García Espinosa), e in breve tempo vengono apprezzate ed assimilate l'opera di Michelangelo Antonioni e dei maggiori esponenti del cinema di avanguardia contemporaneo; su tutti, la nouvelle vague di Jean-Luc Godard, François Truffaut ed Alain Resnais. La tecnica di ripresa e di composizione dell'immagine riceve estrema attenzione da parte dei cineasti latino americani, a cominciare dai principi di "montaggio intellettuale" dei formalisti russi. Il piano-sequenza, le inquadrature di campo "vuoto", il montaggio interno al quadro, la ripresa in tempo reale, la macchina a mano, le pause narrative, l'uso del flashback e dell'inserto, sono solo alcune delle figure stilistiche più ricorrenti in un cinema che attinge a piene mani, più che ai paradigmi originali di Orson Welles, alla lezione dei maestri italiani e francesi e alle surreali intuizioni di Luis Buñuel declinate in almeno una mezza dozzina di sue pellicole realizzate in Messico. Queste modalità di girare un film, vicine ai precetti del cinéma-vérité godardiano e della caméra-stylo di Alexandre Astruc, sono sempre più fortemente legate ai contenuti della cinematografia latino americana negli anni Sessanta, vale a dire quando prendono avvio i moti rivoluzionari e le insurrezioni contro i regimi totalitari in alcune nazioni. Per dirla con un aforisma, la tecnica ribelle si sposa con la ribellione dei tecnici, il "come" si racconta per immagini si incrocia con il "cosa" si racconta.
Fotogrammi di America Latina
Il cinematografo, in America Latina, era sbarcato assai presto. In Messico fu Salvador Toscano Barragan, il pioniere del documentarismo, a registrare su pellicola la cronaca di una nazione dal 1898 al 1917; furono poi i melodrammi e le commedie di Manuel de la Bandera, di José Manuel Ramos e di Miguel Contreras Torres ad accompagnare gli spettatori dalla prima metà degli anni Dieci sino all'avvento del sonoro e all'opera incompiuta Que viva Mexico! girata da Sergej Michailovic Ejzenštejn fra il 1930 e il 1932. In Argentina già nel 1896 ebbero luogo le prime proiezioni pubbliche, favorite da documentaristi belgi, francesi, austriaci; qui la nascita del film a soggetto si deve soprattutto all'italiano Mario Gallo che rivisitò la storia argentina già con Juan Moreyra nel 1908, di cui fu realizzato un omonimo remake da Leonardo Favio nel 1973. Il Brasile visse un fulgido momento più tardivamente, attraverso le opere ispirate alla narrativa popolare negli anni Venti di Luis de Barros, Antonio Leal e soprattutto Humberto Mauro; il movimento del cinema nôvo e i capolavori di Nelson Pereira dos Santos arriveranno solo trent'anni più tardi. Il primo film colombiano, El drama del 15 de octubre di Francisco e Donato Di Domenico risale al 1915; due anni prima in Venezuela La Dama de las Cayenas di Zimmerman aveva inaugurato una stagione il cui massimo esponente fu Román Chalbaud, mentre Los centauros peruanos aveva aperto nel 1911 la stagione del documentarismo prima che il cinema sonoro favorisse in Perù una produzione industriale vera e propria. Il documentario turistico fu il primo genere esplorato in Cile dall'italiano Salvador Gambiastini intorno al 1915, e in Bolivia nel 1925 La profecía del lago di José María Velasco Maidana segnò il punto di partenza per il lungometraggio di finzione. Comunque Cile, Bolivia, Uruguay, Ecuador non hanno conosciuto una precoce mobilitazione verso la realizzazione di film.
Nel cinema ancora rudimentale della prima metà del Novecento, la riscoperta quasi mitologica degli eroi popolari, l'insofferenza nei confronti dello sfruttamento coloniale, la dignità ferita dell'esotismo latino e tropicale già prefiguravano una materia inesauribile per la filmografia prossima ventura. È la rivoluzione cubana e l'avvento al potere di Fidel Castro il 1° gennaio 1959 — evento attorno cui ruoteranno per decenni le vicende e il travaglio storico di molte nazioni del Sud del mondo — a dare origine alla piena assunzione di responsabilità politica da parte del popolo latino americano, e conseguentemente a generare un diffuso rinnovamento che si ripercuote prontamente nella vita sociale e nelle manifestazioni culturali, prima fra tutte la produzione cinematografica.
Nondimeno, anche il reificarsi dell'utopia di Ernesto "Che" Guevara, la ricerca spasmodica di una identità nazionale autonoma e svincolata dai modelli coloniali, di cui molti sudamericani hanno avvertito la mancanza, la rivalutazione delle proprie radici (un termine che ricorre nei titoli di molti film latini) e le lotte contro l'imposizione di un potere estraneo, sono sempre le tematiche più frequentate da quasi tutti i registi latino americani. Certo è che, più e meglio di altre nazioni governate meno stabilmente nell'ultimo quarantennio, Cuba è stata ed è tuttora la nazione che ha non solo curato la costituzione di organismi e strutture di produzione cinematografica all'interno, ma è anche utilmente intervenuta a supporto di quei cineasti stranieri che avevano qualche difficoltà nel realizzare pellicole in patria. Prima che l'impulso rivoluzionario cubano spingesse altre realtà continentali a seguire il suo esempio, e dunque prima che le più crude repressioni di regime affliggessero i Paesi dell'America Centro-Meridionale nella seconda metà del Novecento, le nazioni dotate del più valido e prolifico impianto produttivo erano il Messico, il Brasile e l'Argentina.
In Messico, il contributo di Luis Buñuel fu decisivo per la riforma del cinema e delle sue strutture prima che la strage alle Olimpiadi del 1968 conducesse gli autori militanti alla clandestinità. Paul Leduc nel 1972 con Reed: Mexico insurgente (Reed: Messico rivoluzionario), e poi Felipe Cazals, Ruben Gámez, Eduardo Maldonado, Jaime Humberto Hermosillo visitarono i diversi generi cinematografici sovente offrendo contributi più che dignitosi; sempre negli anni Settanta Alfonso Arau, Alejandro Jodorowsky e l'ancora attivissimo Arturo Ripstein posero le prime pietre di un cinema definitivamente svincolato dal folclore e dai luoghi comuni.
In Brasile, vero e proprio continente autonomo spesso sconvolto da calamità, dittature e miseria, sono gli anni Sessanta a segnare il punto di svolta nella cinematografia. Il cinema nôvo sorto come avanguardia durante la presidenza illuminata di Goulart, si accostò ad un realismo critico attuale. Il referente storico di questa fase è senz'altro Nelson Pereira dos Santos, autore fra l'altro di pellicole apprezzate in Europa come Vidas sêcas (Vite aride) del 1963, Tienda de los milagros (Bottega dei miracoli) del 1977 e Memorias de la cárcel (Memorie del carcere) del 1984. Le figura di maggior spicco del cinema nôvo è però Glauber Rocha, teorico militante e autore di saggi di estetica oltre che regista; la sua "estetica della violenza" pone la fame come essenza sociale al centro del rapporto fra individui. La poetica di Rocha si dispiega, più che nell'acerbo Barravento (Barravento) del 1961, in Dios y el diablo en la tierra del sol (<>Il dio nero e il diavolo biondo) del 1963, Tierra en trance (Terra in trance) del 1967, O dragão de maldade contra o santo guerreiro (Antonio das Mortes) del 1969, Cabezas cortadas (Teste tagliate) del 1970. Nel dipingere la storia violenta del Brasile ma negli anni di esilio anche altre realtà, come il Congo in Der leone have sept cabezas (Il leone a sette teste), Rocha ha coniugato i principi di Brecht con gli stilemi di Godard, con un ostinato estremismo di espressione condotto al parossismo nel delirante A idade da terra (L'età della terra), girato nel 1980 pochi mesi prima di morire. Sempre negli anni Sessanta, con lo slancio vitale del cinema nôvo, si esprimono Paulo Cesar Saraceni con O desafio (La sfida), Joaquim Pedro de Andrade con Garrincha, alegria do povo (Garrincha, gioia del popolo) e soprattutto con Macunaíma (Macunaíma), Ruy Guerra (il più rigoroso dei brasiliani nell'affrontare i temi sociopolitici) con Os fuzis (I fucili), Walter Lima jr. con Brasil año 2000 (Brasile anno 2000). Nel decennio successivo si affermano con esiti diversi Carlos Diegues, Leon Hirszman, Hector Babenco, Eduardo Coutinho, Bruno Barreto.
Anche in Argentina il rinnovamento più consistente nella cinematografia si registra a metà degli anni Sessanta, quando è già internazionalmente conosciuto il lavoro svolto da Leopoldo Torre Nilsson con La casa del ángel (La casa dell'angelo), Fin de fiesta (Fine di festa) e El ojo de la cerradura (L'occhio della serratura). In un periodo di accesi scontri di classe, il cinema di Torre Nilsson rivela le contraddizioni di una società complessa, come faranno di lì a poco Lautaro Murúa ed ancor più Fernando Birri con Tire dié (Tire dié) e Los inundados (Gli alluvionati). Il momento centrale del cinema argentino è legato al lavoro del gruppo di Cine Liberación e all'uscita di La hora de los hornos (L'ora dei forni) di Fernando Ezequiel Solanas e Octavio Getino: un saggio sublime sulla necessità del cambiamento nei rapporti di classe e sulle nequizie del colonialismo contemporaneo. Questo film di quattro ore trova un ideale complemento nel saggio "Verso un terzo cinema" di Solanas e Getino: se il "primo cinema" era quello hollywoodiano, il "secondo cinema" era il cinema d'autore, individuale, allora il "terzo cinema" doveva rappresentare un'arma di liberazione per il popolo, uno strumento sovversivo. L'opera di Solanas regalerà molto più avanti frutti importanti come Tangos, el exilio de Gardel (Tangos) nel 1985 e Sur (Sud) nel 1988. È proprio il 1985 un anno fondamentale per la gloria del cinema argentino: con il citato Tangos, escono anche La historia oficial (La storia ufficiale) di Luis Puenzo e La pelicula del Rey (La pelicula del Rey) di Carlos Sorlin; il primo avrà l'Oscar come migliore film straniero nel 1986, il secondo coglierà il Leone d'argento alla Mostra di Venezia.
Un altro Paese di grande tradizione cinematografica e di crescita travagliata è il Cile, dove nel 1962 viene fondato un festival a Viña del Mar e sul finire degli anni Sessanta comincia a svilupparsi una scuola di autori fra i quali campeggiano Raúl Ruiz autore di Tres tristes tigres (Tre tigri tristi), Helvio Soto e il suo Caliche sangriente (Calice insanguinato), e Miguel Littín con El chacal de Nahueltoro (Lo sciacallo di Nahueltoro) e La tierra prometida (La terra promessa); il cinema come forma di resistenza ideologica troverà il suo mentore in Patricio Guzmán con La batalla de Chile (La battaglia del Cile), mentre tra le nuove leve più ispirate citiamo Silvio Caiozzi, autore in pieno regime dittatoriale di Julio comienza en julio (Julio comincia in luglio) del 1979.
In Bolivia la guerriglia cinematografica e l'indigenismo nel cinema di Jorge Sanjinés Aramayo presero spunto nel 1969 per Yawar malku (Sangue di condor) dal "terzo cinema" di Solanas e Getino, cui seguì due anni dopo El coraje del pueblo o La noche de San Juan (Il coraggio del popolo). In Colombia si deve una menzione ai tentativi di Julio Luzardo e di Carlos Álvarez, mentre in Venezuela si segnalano il prolifico Román Chalbaud e di Mauricio Wallerstein; Ugo Ulive e Mario Handler sono i cineasti più rappresentativi in Uruguay, e in Perù gli autori più celebrati sono Luis Figueroa, Armando Robles Godoy e più di recente Francisco Lombardi.
La Isola Grande
Ma veniamo finalmente al cinema cubano e alle sue radicate implicazioni politiche, presenti sin dai primordi. A conferma di quanto sopra accennato, osserviamo come il primo lungometraggio cubano Manuel García o El rey de los campos de Cuba, diretto nel 1913 da Enrique Díaz Quesada, tratti un tema patriottico attinto alla storia nazionale, così come di attigua inclinazione furono altri film che il regista girò tra il 1914 e il 1920 (El capitán mambí, La manigua o La mujer cubana, La brujería en acción, El genio del mal). Ad accogliere nell'isola queste pellicole in tali anni vi sono già duecento sale di proiezione. L'impegno nazionalista e la rivendicazione dell'identità caraibica erano dunque i sentimenti portanti nella prima produzione cinematografica. Realidad segnò nel 1920 l'esordio di Ramón Peón dietro la macchina da presa, autore in seguito di ben quarantasei pellicole tra cui La Virgen de la Caridad (1930), ultimo film muto cubano, lungamente celebrato dalle platee caraibiche. Con l'arrivo del primo film sonoro nel 1937 La serpiente roja di Ernesto Caparrós Oliver, il cinema di Cuba declinò verso le atmosfere messicane e il melodramma creolo. Insieme al citato La Virgen de la Caridad, El romance del palmar (1938) dello stesso Peón e Casta de roble (1953) di Manuel Alonso (autore tre anni prima di Siete muertes a plazo fijo) compongono un trittico tematico che ricerca la cubanìa cinematografica al di là del folclore e della retorica del pittoresco. Frattanto, sulla scena politica il regime dittatoriale che aveva visto il progressivo asservimento all'egemonia statunitense — la presidenza di José Miguel Gómez nel 1906, per proseguire dal 1925 con Gerardo Machado e quindi con Fulgencio Batista salito al potere già nel 1934 — determinò in gran parte della popolazione nella prima metà del secolo scorso, una altalena di situazioni fra intolleranza e sopportazione, con intellettuali e studenti in prima fila nell'espressione del dissenso e nella denuncia degli squilibri fra le classi sociali. Una pellicola in sedici millimetri girata nel 1955 da quattro cineasti militanti, sarebbe divenuta di lì a poco il vessillo di un cinema rivoluzionario e aderente alle esigenze del proletariato. El mégano (Il carbonaio), diretto da Julio García Espinosa, Tomas Gutiérrez Alea, Alfredo Guevara Valdés e José Massip, descrive la miserevole condizione dei minatori nelle zone paludose; la pellicola, circolata in semi-clandestinità nei giorni dei più forti conati di ribellione pre-rivoluzionaria, fu sequestrata dai funzionari di Batista. Ma il tempo del dittatore sorretto dai nordamericani si era compiuto. Quando i barbudos, Fidel Castro e Che Guevara entrarono in Santiago e a L'Avana, furono accolti con unanime tripudio di folla. Questa accoglienza generosa e la condivisione popolare degli intenti rivoluzionari favorirono la sollecita attuazione delle riforme sociali, economiche e culturali che mutarono in poche settimane il volto della Repubblica di Cuba. La nazionalizzazione dell'economia, l'esproprio delle terre prima assegnate ai latifondisti, la confisca delle industrie, delle banche, delle compagnie petrolifere, delle aziende impiantate e gestite dagli Stati Uniti, furono atti volti ad acquisire la fisionomia socialista con una forte impronta nazionale antimperialista, che avrebbero condotto Cuba ad orbitare nell'area sovietica. Prima ancora della fallita invasione della Baia dei Porci nel 1961 e della successiva "crisi dei missili" nell'ottobre 1962, Castro e i suoi fedeli avevano già rivoluzionato le più importanti sfere socioeconomiche ed anche le strutture preposte alla cultura.
Già nel 1956 si era formato un primo nucleo della "Cinemateca" sotto l'egida dello scrittore Guillermo Cabrera Infante; invece la "Sociedad Cultural Nuestro Tiempo", altro cenacolo di intellettuali di fronda, era animata fra gli altri dal solito Alfredo Guevara. Ma l'atto che si rivelerà ben presto fondamentale per la storia del cinema di un intero continente, è la costituzione dell'ICAIC (Istituto Cubano di Arte e Industria Cinematografica) il giorno 24 marzo 1959: undici settimane dopo l'insediamento dei rivoluzionari castristi al potere. A questo organismo si affiancheranno poi altre entità significative come l'ICRT (Istituto Cubano di Radio e Televisione), la Fondazione del Nuovo Cinema Latino Americano (che promosse a partire dal 1979 il Festival del Nuovo Cinema Latino Americano) e più recentemente, nel 1986, la EICTV (Scuola Internazionale di Cinema e Televisione di San Antonio de los Baños). Occorre precisare che sia la Fondazione del Nuovo Cinema che la EICTV sono organismi extraterritoriali; Cuba ha cioè fornito la sede, la costruzione e le strutture di partenza, ma le attrezzature e la vita ordinaria di tali istituzioni non sono diretta emanazione della Repubblica di Cuba. L'ICAIC, tra i cui fondatori vi era Julio García Espinosa, non fu affatto solo un "ministero del cinema", ma divenne da subito la macchina operativa della comunicazione audiovisiva a Cuba e anche oltre; produzione, distribuzione, esercizio, programmazione delle sale, alfabetizzazione popolare, diffusione ideologica, formazione di tecnici ed autori, selezione dei soggetti, scrittura di fiction e documento, esportazione culturale e commerciale dei prodotti, promozione artistica di Paesi terzi: queste le principali funzioni assolte dall'ICAIC in modo puntuale ed efficiente, con esiti evidenti in specie nel primo quindicennio di attività. La produzione cinematografica del precedente ventennio viene bollata come commerciale, appartenente "alla preistoria, a un'età moralmente morta"[1]. In effetti l'ICAIC e il suo demiurgo Alfredo Guevara, fratello di Ernesto, dovevano porsi come protagonisti di una brusca sterzata rispetto alla flebile produzione cubana pre-rivoluzionaria, troppo strumentalizzata in senso folcloristico dagli yankees. Il regista Pastor Vega sottolinea alcuni passi della Legge per la creazione dell'ICAIC:
"Il cinema costituisce in virtù delle sue caratteristiche uno strumento di opinione e di formazione sia della coscienza individuale che di quella collettiva; esso può pertanto contribuire a rendere più profondo e diffuso lo spirito rivoluzionario stimolandone il vigore creativo.(...) Lo sviluppo dell'industria cinematografica cubana presuppone un lavoro di promozione, educazione e rieducazione del gusto, che è stato seriamente deformato dalla produzione e dalla visione di film concepiti con criteri commerciali, film da ripudiare dal punto di vista drammatico ed etico, film insulsi dal punto di vista tecnico e artistico. (...) Il film deve costituire un richiamo alla coscienza e contribuire all'eliminazione dell'ignoranza, a delucidare i problemi, a formulare soluzioni e a proporre, contemporaneamente e drammaticamente, i grandi conflitti dell'uomo e dell'umanità"[2].
I presupposti di esistenza per l'ICAIC si traducevano in precise misure da adottare prontamente, come ricordano Pérez e García Espinosa:
- acquisizione, mediante confisca, di tutti i mezzi di produzione cinematografica e delle imprese di distribuzione di film appartenenti a interessi yankee oppure a rappresentanti della tirannia di Batista;
- esproprio o acquisto di tutte le sale cinematografiche e delle case cubane di distribuzione;
- creazione dei cinema mobili (cine moviles) che, nel portare il cinema nelle zone rurali e in genere nei luoghi di più difficile accesso, elevino gli abitanti di quelle aree alla condizione di pubblico cinematografico, facendo così un primo passo verso la liquidazione, in quest'ambito, dei divari fra le possibilità urbane e quelle delle campagne;
- ritiro dalla circolazione di film che esaltino la violenza controrivoluzionaria, la discriminazione razziale e le posizioni ideologiche al servizio dell'imperialismo;
- creazione della rivista "Cine Cubano", che dal 1960 al 2000 ha pubblicato circa 150 numeri promuovendo i movimenti cinematografici latino americani, le loro ricerche e battaglie sia sul piano teorico sia su quello della pratica[3].
I cinque punti qui accennati racchiudono buona parte delle intenzioni di rinnovamento del settore che trovarono immediata attuazione. Naturalmente fu decisivo l'impulso alla produzione nazionale del lungometraggio, ma anche i massicci investimenti nel campo del documentario e del cinema di animazione. Prima del 1959 sugli schermi cubani giungevano circa cinquecento pellicole ogni anno, e più di trecento erano prodotti commerciali statunitensi. Prendendo ad esempio il 1959, ultimo anno della dittatura Batista, su 484 film distribuiti — il 29% drammatici, il 19% film d'avventura —, 266 erano statunitensi (il 55%), 79 messicani, 44 britannici, 25 italiani e solo otto erano le coproduzioni cubane. Fin dal 1963 l'ICAIC ridusse le programmazioni giornaliere di film (uno per sala invece di due o tre), ed eseguendo una politica di selezione rigorosa, contrasse la distribuzione da cinquecento titoli a poco più di centoventi per anno. Nel 1970 su 124 pellicole importate, 26 provenivano dall'U.R.S.S., 23 dal Giappone, 14 dalla Francia, 11 dagli Stati Uniti, 10 dalla Spagna, otto dall'Italia; nel medesimo anno, i 325 cinema mobili — con attrezzature montate su camion, muli, barche — avevano effettuato oltre 98.000 proiezioni per tredici milioni di presenze: una vera e propria pioggia di informazione e alfabetizzazione per le campagne e per quei piccoli centri ancora privi di luoghi di istruzione.
Nell'arco di dieci anni, grazie a questa politica dell'educazione audiovisiva, gli spettatori erano più che raddoppiati; nei primi anni Settanta il governo aveva ormai prodotto cinquecento cinegiornali e trecento cortometraggi documentari; alla fine del decennio, pertanto dopo venti anni di attività, l'ICAIC aveva realizzato 86 lungometraggi a soggetto di nazionalità cubana. Una vasta produzione che osservava i dettami suggeriti da Alfredo Guevara già nel 1960: un cinema di alta qualità artistica, sull'esempio dei grandi autori europei; un cinema nazionale in senso autentico e non folcloristico; un cinema anticonformista, attento e aperto ad ogni possibilità espressiva; un cinema a basso costo, conscio dei propri limiti e principi; un cinema vendibile, gradito al pubblico colto e alle masse popolari per la sua sensibilità artistica; un cinema, infine, tecnicamente compiuto, frutto di studio ed esperienza sul campo[4].
Produrre film, documentari, corti d'animazione, distribuirli su un ampio territorio nazionale grazie alle sale esistenti, quelle rinnovate e i cine moviles: il circolo virtuoso della rivoluzione cinematografica si era compiuto. Ma a concorrere al successo numerico ed alla crescita qualitativa di questo cinema, vi era anche la ingente sollecitazione culturale impressa dalla Cineteca di Cuba, creata nel 1960 con l'intento di preservare il patrimonio audiovisivo nazionale ma anche di produrre per la televisione, il Canale 6 e per Tele-Rebelde, due programmi di educazione all'immagine dal titolo 24 x segundo e La historia del cine. Ambedue i programmi erano volti ad agevolare la comprensione del cinema in quanto linguaggio e in quanto portatore di una ideologia: obbiettivi pienamente raggiunti, a detta dei tre quarti di un campione di settecento telespettatori sottoposti a un'indagine nel 1979, riportata sul numero 95 di "Cine Cubano". Proprio la rivista creata oltre quarant'anni fa e tuttora teatro di un interminabile dibattito culturale sul cinema latino americano, fu nei primi anni il manifesto politico e l'indispensabile amplificatore delle posizioni teoriche e dottrinali in campo audiovisivo; la chiave di lettura della complessa trasformazione non già di un'industria cinematografica, quanto piuttosto di una società intera. La Cineteca di Cuba ha oggi sede presso l'edificio dell'ICAIC; fu dotata di una sala cinematografica attiva dal dicembre 1961, che attualmente si chiama "Cine Chaplin", attigua alla stessa Cineteca. L'ICAIC si raccordò da subito con gli altri organismi di cultura del Paese, tra i quali la "Casa de las Américas" fondata nel 1960, fondamentale e creativo punto di incontro per i letterati dell'intero continente.
La pellicola El mégano girata a otto mani fu, s'è detto, il punto di avvio della rivoluzione comunicativa a Cuba. Mentre nei primi dodici mesi di vita l'ICAIC aveva già prodotto ventitré documentari, i primi film a soggetto dell'era dei barbudos furono nel 1960 Cuba baila (Cuba balla) di Julio García Espinosa, Historias de la revolución (Storie della rivoluzione) di Tomas Gutiérrez Alea, e nel 1961 Realengo 18 (Lotto numero 18) di Oscar Torres: tutti e tre gli autori negli anni Cinquanta erano stati allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, da cui attinsero conoscenze sul Neorealismo e sul cinema europeo contemporaneo. Vennero poi il citato El joven rebelde sempre diretto nel 1961 da García Espinosa con la sceneggiatura di Zavattini; nel 1962 fu la volta di Año nuevo (Anno nuovo) episodio di Cuba 58 diretto da Jorge Fraga, e di Las doce sillas (Le dodici sedie) di Gutiérrez Alea, regista anche di Cumbite (Cumbite) uscito nel 1964 con Tránsito (Transizione):un film, questo, diretto da quell'Eduardo Manet che girerà l'anno dopo il primo lungometraggio cubano a colori, la commedia musicale Un día en el solar (Un giorno in un basso). Questi lavori assolvono il compito di mostrare il difficile passaggio dalla dittatura alla rivoluzione, esibendo i valori della lotta armata e necessaria senza però un compiacimento propagandistico, bensì con una forma di pauperismo neorealista. Il primo lustro della presenza ICAIC fu così una sorta di palestra per quei giovani cineasti alla ricerca di una identità autoriale e di una estetica convincente; e se le prove di esordio non hanno lasciato un segno nella storia del cinema, si può dire altrettanto delle opere di quei registi ospitati dal governo castrista in quegli stessi anni per un interscambio culturale comunque prezioso. Tra questi film-documento girati da stranieri a Cuba ricordiamo Pueblo en armas (Popolo in guerra) e Carnet de viaje (Taccuino di viaggio) girati da Joris Ivens nel 1961 come Cuba sì! di Chris Marker, El otro Criostobal (L'altro Cristobal) di Armand Gatti nel 1963 e l'anno seguente Soy Cuba (Sono Cuba) di Michail Kalatozov; sotto il profilo teorico e didattico, fu inoltre rilevante la presenza nell'Isola di Jean-Luc Godard, Andrzej Wajda, Peter Brook, Juan Antonio Bardem e molti altri artisti. La sensibilità ricettiva ai temi dell'inquietudine, dal disagio esistenziale all'incomunicabilità sociale, favorì l'esplorazione e l'avvicinamento agli argomenti prediletti da Antonioni, da Bergman e da molta parte della nouvelle vague. In tal senso nel 1964 La decisión (La decisione) di José Massip, ed En días como estos (In giorni come questi) di Jorge Fraga, e nel 1965 El robo (Il furto) dello stesso Fraga, El encuentro: la salación (La salatura) di Manuel Octavio Gómez e Desarraigo (Sradicamento) di Fausto Canel testimoniano l'attenzione alla forma stilistica (il mezzo primo piano che aliena i personaggi) e al contenuto dei soggetti (la solitudine come condizione universale e inevitabile) di derivazione europea, che condurranno nel 1966 al risultato assai più brillante di Muerte de un burócrata (Morte di un burocrate) di Tomas Gutiérrez Alea detto "Titón". Si tratta della tragicommedia di un giovane che per far assegnare la pensione alla zia deve riesumarne il marito sepolto con il proprio libretto di lavoro; le mille disavventure conseguenti alle sfiancanti pratiche burocratiche, porteranno il giovane esasperato all'uccisione del burosauro di turno. Satira eccellente sulla burocrazia becera della passata ma soprattutto della presente storia cubana, Muerte de un burócrata salda un debito storico ossequiando il miglior cinema yankee di Harold Lloyd, Charlie Chaplin e Orson Welles, venandolo con un umorismo macabro tipico dello sceneggiatore Rafael Azcona che in quegli anni collaborava con Marco Ferreri e Luis García Berlanga.
L'intuizione sarcastica e la parodia mai troppo banale dei personaggi, lasciano presagire che Gutiérrez Alea diverrà uno dei più grandi, se non il migliore, tra i registi cubani a tutt'oggi. Di Muerte de un burócrata, oltre all'esplicito omaggio a Il settimo sigillo bergmaniano, ci piace ricordare la sequenza iniziale in cui i titoli di testa sono in realtà scritti a macchina dalla mano di un impiegato (il regista stesso) in forma palesemente burocratica; e subito dopo, i cherubini d'alabastro del Cimitero Monumentale de L'Avana ci introducono al funerale dello sfortunato operaio-inventore, morto tra gli ingranaggi del complicato apparecchio che sfornava busti marmorei di José Martí: il "padre della patria" cubana scomparso nel 1895. La cinepresa segue l'orazione funebre dell'ennesimo burocrate con un audace piano-sequenza che mette in evidenza il lato umoristico della cerimonia.
La stagione aurea
Muerte de un burócrata apre il momento più felice e ispirato del cinema cubano, ineguagliato artisticamente sino ad oggi nonostante il successo internazionale dei film degli anni Novanta. Tra il 1967 e il 1968 vanno in lavorazione tre delle opere più conosciute del cinema caraibico e rivoluzionario, dirette da tre dei più importanti autori nati nella Isla Grande. Julio García Espinosa, co-autore di El mégano, realizza Las aventuras de Juan Quin Quin (Le avventure di Juan Quin Quin) innestando nel tessuto avventuroso della vicenda un protagonista guerrigliero e spogliandolo però dell'abituale aura mitica dell'eroe popolare. Il trittico comprende poi due film osannati dalla critica e ancor oggi ritenuti pietre miliari del cinema latino americano: Lucía di Humberto Solás e Memorias del subdesarrollo di Tomas Gutiérrez Alea.
Già il mediometraggio Manuela — la semplice storia d'amore fra un guerrigliero ed una contadinella — uscito nel 1966 per la regia di Humberto Solás, per lo stile coraggioso lasciava intuire un brillante futuro per il suo giovane autore; e infatti Lucía, film in tre episodi ambientati rispettivamente nel 1895, nel 1933 e nella contemporaneità degli anni Sessanta, è un affresco mirabile sulla storia di Cuba, sulla psicologia femminile, e sulle possibilità espressive del mezzo cinematografico. Degli episodi sono protagoniste tre donne: non eroine ma donne in cammino verso un affrancamento dai ruoli tradizionali. Per raccontare con efficacia queste vicende individuali che corrono parallele a momenti cardinali per l'evoluzione del Paese, Solás usa un bianco e nero fortemente contrastato, persino con effetti di solarizzzazione, con la cinepresa a mano ad accompagnare le convulse battaglie del 1895 — nel secondo conflitto d'indipendenza con Stati Uniti e Spagna —, o l'uccisione dell'infido pretendente della protagonista: è il melodramma cruento che si sposa con le inflessioni salottiere di un gineceo borghese. Il romanticismo del secondo episodio ambientato al tramonto della presidenza Machado, ricorda per i toni soffusi e intimi, per l'attenzione allo sguardo femminile e per la composizione dell'inquadratura, opere come Jules et Jim di Truffaut e le atmosfere dilatate di Resnais; qui la fotografia estetizzante si fa meno nervosa per soffermarsi sugli stati d'animo della giovane protagonista. Ancora differente, quasi naturalistico, è lo stile del terzo episodio, che si apre in uno scenario rurale esclusivamente popolato da donne perfettamente integrate nella società cubana: una guida il camion, un'altra lavora la terra, una terza fuma discettando sulle conquiste femminili post-rivoluzionarie. La Lucía degli anni Sessanta è consapevole di una autonomia che Tomas, il suo compagno, non vuole riconoscerle; per gelosia, egli è contrario al desiderio di istruzione e al lavoro svolto dalla donna, ma ormai il tempo della parità dei sessi è giunto, ed il finale ci offre l'immagine di una bimba che osserva sulla spiaggia il dolce diverbio della coppia, con Lucía che si oppone strenua e vincente all'anacronistico "machismo" di Tomas. In questa terza parte, la macchina da presa si pone in modo più diretto vicino ai volti dei protagonisti, ricordando così il primo Milos Forman de L'asso di picche o Gli amori di una bionda.
Memorias del subdesarrollo (Memorie del sottosviluppo) di Tomas Gutiérrez Alea esce, come Lucía, nell'autunno del 1968, in piena sincronia tematica e artistica con le contestazioni europee. Siamo di fronte al più importante film mai realizzato in America Latina, come periodicamente rimarca la critica specializzata di quelle latitudini. In Italia il film fu presentato alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, e all'epoca Goffredo Fofi lo definì
"... in modo acuto e intelligente, forse con un po' troppo di comprensione, il non radicamento di un borghese dopo la rivoluzione, mostrando la sua incapacità di contatto con la nuova storia"[5].
Il film è un percorso in soggettiva, arricchito dal dialogo interiore, nella vita di Sergio, un quarantenne disilluso e alquanto decadente, soprattutto smarrito dinanzi al transito della rivoluzione a al ribaltamento delle proprie certezze borghesi. Si è osservato che il protagonista, ancorato alle contraddizioni della classe di appartenenza, nel sedurre l'adolescente Elena (l'avvenente Daisy Granados, oggi attrice-simbolo della cubanía) come nel desiderio frustrato di condividere interessi elevati con una donna,
"... è un autentico parassita che vive al margine della dinamica violenta e sottosviluppata del suo ambiente, come illustra l'eccellente sequenza dei titoli di testa, ambientata in un ballo popolare animato da Pello l'Africano"[6].
Ma lo spettatore, quello occidentale in special modo, non riesce a trovare del tutto sgradevole la figura di Sergio, che comunque mantiene sempre accesi un certo malessere esistenziale e insieme il tentativo infantile di sfuggire al proprio destino: patetico ma umano, troppo umano. Gutiérrez Alea rigetta queste osservazioni e il consenso della critica nordamericana, mettendo in guardia contro la manipolazione che nell'arte è sempre possibile, e in questo film denso di ambiguità lo è ancora di più se ci si identifica con il protagonista e con il suo disfacimento progressivo. Il regista afferma che l'intellettuale Sergio
"... è fin dall'inizio un vinto che mette in evidenza la colonizzazione culturale di cui siamo stati vittime e le cui conseguenze, nella rivoluzione, si possono emblematizzare in senso lato nel nostro sottosviluppo. (...) Sergio non riesce a comprendere i valori sui cui si basa il mondo che sta nascendo intorno a lui, e soccombe. In un senso profondo, Sergio appare come un sottosviluppato di fronte al mondo che lo circonda, di fronte alla rivoluzione"[7].
L'intersecarsi nel film della dimensione soggettiva con quella oggettiva, le alterazioni dell'umore — dei personaggi ma anche dello spettatore — di fronte agli eventi (il pericolo atomico, l'esodo in massa verso la Florida, un mondo femminile inafferrabile che muove alla misoginia, la vanità del successo), sono il segnale di un racconto tridimensionale che vive nel suo svolgersi sullo schermo, in un giuoco interattivo senza fine. Sergio osserva sbigottito le milizie rivoluzionarie sfilare sul Malecón de L'Avana, mentre poco prima i funzionari del ministero avevano "violato" la privatezza del suo domicilio. Il passato viene fatto a pezzi dal presente. Allo stesso modo, Gutiérrez Alea mette in campo e poi distrugge il linguaggio cinematografico dei vecchi Maestri, amplifica la tecnica e la retorica per poi ribaltarne la funzione espressiva. Il flashback e l'iterazione visiva — il rimpianto dell'adolescenza dorata e la ripetizione, la riproduzione sonora e quindi anche visiva delle discussioni con la moglie — rappresentano i simulacri di una tecnica d'avanguardia ormai desueta: "memorie", appunto, di una gloria passata. Quando Sergio si trucca e indossa sul viso i collant della moglie con esasperante lentezza, ci pare di vivere quel nulla prima della tragedia che Ferreri nello stesso anno mise magistralmente in scena con Dillinger è morto; e quando, dopo aver ascoltato i vaniloqui dei conferenzieri, si avvicina camminando alla macchina da presa, la sua immagine ingrandita, come in Blow up di Antonioni, perde nitidezza e definizione. È metafora facile ma efficace: la progressione del protagonista conduce al nulla, alla perdita di visibilità e di senso, mentre, appropinquandosi alla cinepresa, egli stesso si dice:
"... sei solo... non sei niente, tu sei morto".
La borghesia intellettuale, più o meno illuminata, diviene da questo momento in poi uno dei bersagli privilegiati del cinema cubano; come riscontriamo in David di Enrique Pineda Barnet del 1968. L'anno seguente, la rilettura di pagine della storia nazionale permea Odisea del general José (L'odissea del generale José) di Jorge Fraga e soprattutto La primera carga al machete (La prima carica al machete) di Manuel Octavio Gómez, sullo storico scontro fra patrioti cubani e milizie spagnole nel 1868. Nel 1970 pure García Espinosa e Gutiérrez Alea si cimentano con la storia recente o remota: del primo citiamo Tercer mundo, tercera guerra mundial (Terzo mondo, terza guerra mondiale), un film-documento che partendo dal rigore della cronaca bellica del Vietnam, solleva un apologo universale sullo sviluppo e gli squilibri del pianeta; invece Una pelea cubana contra los demonios (Una lotta cubana contro i demoni) di Gutiérrez Alea riscopre, con lo sguardo visionario dello stregone, le lotte pagane di opposizione al colonialismo nel XVII secolo.
Queste pellicole, a prescindere dalla qualità del prodotto, aderiscono alle poetiche elaborate in quegli anni, le quali raccolgono le istanze politiche che il cinema deve adottare prima ancora di suggerire una estetica della rappresentazione. Nel 1965 Glauber Rocha con il saggio "L'estetica della fame", cui farà seguito sei anni dopo "L'estetica del sogno", aveva illustrato le possibili tipologie dell'arte rivoluzionaria; nel 1969 Fernando Ezequiel Solanas e il gruppo Cine Liberación che aveva già realizzato La hora de los hornos (L'ora dei forni), partorì il saggio "Verso un terzo cinema" propugnando l'uso del film come strumento di liberazione, rendendo lo spettatore un guerrigliero e creando circuiti di distribuzione clandestina per i gruppi eversivi. E nel medesimo anno, a Cuba Julio García Espinosa, saggista prolifico oltre che regista, scriveva "Per un cinema imperfetto"; un manifesto di una nuova arte della discussione militante e della persuasione universale. Il cinema deve essere imperfetto, centrato sull'attualità, teso a coinvolgere attivamente lo spettatore e a mobilitarne la creatività in direzione politica:
"Una nuova poetica per il cinema sarà anzitutto e soprattutto una poetica 'interessata', un'arte 'interessata', un cinema cosciente e risolutamente 'interessato', cioè un cinema 'imperfetto'. Un'arte 'disinteressata' come piena attività estetica potrà farsi solo quando il popolo stesso creerà l'arte. (...) il cinema imperfetto deve anzitutto mostrare i processi che generano i problemi. Deve essere cioè il contrario di un cinema che si dedichi soprattutto a celebrare i risultati"[8].
Su queste basi teoriche, e col sostegno del socialismo sovietico, il cinema latino americano e cubano in particolare si impegneranno con coerenza e con alterne fortune per costruire attraverso la fiction, il cinema di animazione e soprattutto il documentario sociopolitico una vera e propria officina dell'immagine.
Note
[1] Così si esprime Alfredo Guevara, posto alla guida dell'ICAIC nel 1959, nel saggio "Il cinema cubano 1963", tradotto in AA.VV., Teorie e pratiche del cinema cubano, Venezia, Marsilio, 1981, p. 32.
[2] Pastor Vega, "Il cinema e la cultura nazionale a Cuba", in AA.VV., Teorie e pratiche del cinema cubano, Venezia, Marsilio, 1981, p. 100.
[3] Vedi il contributo di Manuel Pérez e Julio García Espinosa dal titolo "Il cinema e l'educazione" in AA.VV., Teorie e pratiche del cinema cubano, Venezia, Marsilio, 1981, p. 144 e sgg.
[4] Gli obbiettivi dell'ICAIC sono delineati da Alfredo Guevara in "Realtà e prospettive di un nuovo cinema", in Teorie e pratiche del cinema cubano, Venezia, Marsilio, 1981, p. 11 e sgg.
[5] Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 1977, p. 162.
[6] Edgar Soberón Torchia, "Vigencia del subdesarrollo", in Cien años sin soledad (a cura di Carlos Galiano e Rufo Caballero), L'Avana, Letras Cubanas, 1999, p. 25.
[7] Tomas Gutiérrez Alea, "Dialettica dello spettatore", in AA.VV., Teorie e pratiche del cinema cubano, Venezia, Marsilio, 1981, p. 215.
[8] Julio García Espinosa, "Per un cinema imperfetto", in AA.VV., Teorie e pratiche del cinema cubano, Venezia, Marsilio, 1981, pp. 80-82.
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