Cuba

Una identità in movimento


Tavola Rotonda "Gli intellettuali e artisti cubani contro il fascismo", effettuata negli studi della Televisione Cubana, il 14 aprile 2003, "Anno dei gloriosi anniversari di Martí e del Moncada" (Parte II)


Randy Alonso — Questo preteso egemonismo nordamericano, spinto dalla direzione neofascista che governa oggi gli Stati Uniti, ha un'espressione concreta nella pretesa egemonia culturale che dagli Stati Uniti si vuole imporre al resto del mondo. Un'egemonia che, come diceva Elíades, ha una base in questo potere mediatico che hanno oggi gli Stati Uniti, e che accompagna il loro potere tecnologico e militare; ma che ha, ovviamente, una componente molto più ampia in tutto l'aspetto culturale che questa amministrazione cerca d'imporre al mondo e che, senza dubbio, fa parte degli obiettivi di questo neofascismo nordamericano.
Vorrei che Julio García Espinosa, che ha seguito da vicino per molti anni tutti questi aspetti della globalizzazione culturale, dell'egemonia culturale nordamericana, e specialmente all'interno del cinema, faccia la sua valutazione. Alla luce degli avvenimenti attuali, come vede questa pretesa egemonia culturale nordamericana e l'atteggiamento degli attori e dell'intellettualità, che hanno assunto la difesa dell'autentica cultura di quel popolo e dei popoli del mondo.

Julio García Espinosa — Innanzitutto, vorrei dire che per un regista dell'America Latina è evidente, molto evidente, che un paese senza immagine è un paese che non esiste, com'è evidente che il no alla guerra ha significato o significa il no al fascismo, come è evidente che gli stessi che hanno attaccato, con una guerra illegale, non necessaria e ingiusta, il popolo dell'Iraq, sono gli stessi che hanno impedito e impediscono a noi di essere i protagonisti della nostra stessa immagine.
Penso che ancora più evidente sia il fatto che non solo ci impediscono di essere i protagonisti della nostra stessa immagine, ma che si attribuiscano il diritto di realizzare loro la nostra immagine e, quindi, siamo il bersaglio preferito, almeno durante oltre 40 anni così l'hanno dimostrato, giacché ci hanno scelto per dare la loro versione della realtà cubana.
Ovviamente, non hanno poca ragione poiché noi siamo i veri dissidenti della politica che hanno seguito e seguono nel nostro continente, ed è molto evidente che tale politica noi, i cineasti dell'America Latina, abbiamo cercato di combatterla, ma in condizioni di una vera disuguaglianza. Inoltre, c'è uno scambio disuguale nell'ambito economico e anche in quello mediatico.
Un esempio molto concreto è il modo di gestire quanto accaduto nel nostro paese negli ultimi tempi, cioè, la riunione fra gli ipotetici dissidenti, dissidenti prodotti da un marketing, dissidenti che hanno incontrato il rappresentante diplomatico del vicino del Nord e, praticamente, questo si è diffuso come se fosse una riunione di certi dissidenti con questo signore per bere il tè.
Mi sembra ovvio, ed è ovvio, che le relazioni che per anni ci sono state con gli Stati Uniti, che ci hanno attaccato mediante diversi tipi di terrorismo di Stato, dal far esplodere un aereo in volo passando dall'assassinio di Fidel, dichiarato pubblicamente ed ufficialmente, fino al finanziamento di un'invasione al nostro paese, tutto questo che è stato così evidente non può cambiare da un giorno all'altro, non è possibile che a noi che siamo stati le vittime ci convertano in aggressori.
È indiscutibile che "non è possibile confondere" – era una frase di Lincoln – "tutto il popolo"; ma loro hanno questo grande potere mediatico, hanno questo grande potere per distorcere la nostra immagine, toglierci il diritto di essere noi a realizzarla; e così, in mezzo ad una situazione in cui cresce questa aggressività poiché il no al fascismo, noi cineasti dell'America Latina lo intendiamo non come un aggettivo per qualificare la situazione creata da questo nuovo governo, bensì come una barriera al fascismo che si definisce a partire da fatti concreti, come il trasgredire e non rispettare un organismo internazionale come le Nazioni Unite, che ipoteticamente regola le relazioni internazionali; attribuirsi il diritto di imporre e defenestrare governi nel mondo; fatti insoliti come l'annuncio di guerre preventive. Ecco i sintomi indiscutibili che definiscono il carattere fascista di un governo, e sono fatti che per noi rappresentano, inoltre, un grave pericolo perché riescono a falsare la nostra realtà preparando così la strada, in tali circostanze, per un'aggressione.
Ci sembra che i cineasti dell'America Latina hanno molta esperienza nella lotta contro il fascismo.
È indiscutibile che coloro che hanno imposto le dittature in America Latina sono stati governi come questo (degli Stati Uniti), questo stesso tipo di politica nei confronti dell'America Latina.
Hanno cominciato la dittatura, hanno imposto le dittature in tutta l'America Latina. I cineasti dell'America Latina hanno combattuto quelle dittature, le hanno combattute cercando che nell'America Latina ci fosse una vera democrazia, non quella caricaturale che solitamente ha regnato in questi territori, e loro hanno dato la loro vita, i cineasti dell'America Latina sono stati torturati, assassinati, scomparsi, nessuno se n'è andato in esilio a Miami; cioè che i cineasti dell'America Latina hanno una lunga storia nella lotta contro il fascismo.
Potrei dire qualcosa di simile, anche se non voglio dilungarmi molto, nei confronti dei cineasti nordamericani. I cineasti nordamericani hanno anche loro una vasta storia nella lotta contro il fascismo, per esempio nella tappa del maccartismo.
Quella è stata una tappa veramente sinistra, dove non pochi registi furono sacrificati, e quella è una memoria che resta viva e che si è riattivata adesso, di recente, con le reazioni da parte degli artisti, della stessa Hollywood, di una fermezza molto conseguente con la loro storia, di far fronte alle nuove posizioni degli Stati Uniti, riguardante una politica fascista. Ecco il caso di Susan Sarandon, di Danny Glover, ecc. che hanno subito rappresaglie come quella di impedire che si vedano i loro film.
Vale a dire che per i cineasti, e in particolare per quelli dell'America Latina, il nemico è potente; ma sappiamo che anche la nostra dignità è potente, così come sappiamo che più grande sarà il nemico, più grande sarà la nostra dignità.

Randy Alonso — Un nemico che, nella sua brama di dominazione cerca di egemonizzare una cultura, e lo fa da una prospettiva dell'incultura di questo governo, dalla prospettiva della barbarie che cerca di imporre questo governo che preconizza una tirannia fascista mondiale e una pretesa egemonia culturale, che è semplicemente cercare di trasformare il mondo in un'egemonia dell'incultura; ecco quello che cercano, infatti, da questo governo americano, e per questo a volte, in mezzo al dolore che e la rabbia che possono provocare queste immagini, si può capire che succedano cose come quelle che raccontava Elíades sull'incendio della Biblioteca Nazionale di Baghdad, la perdita di imprtantissimi documenti nel Centro di Studi islamici, dell'atroce saccheggio del Museo Nazionale di Baghdad, davanti allo sguardo compiaciuto delle forze di occupazione, come dall'epoca di quelli che accompagnarono Roosevelt all'entrata di Santiago de Cuba, di quelli che nell'operazione Panama, come si ricordava nel Consiglio Nazionale dell'UNEAC, sotto la direzione del padre dell'attuale Presidente americano, saccheggiarono anche il patrimonio culturale di Panama, senza che finora nemmeno uno di quei pezzi sia stato restituito al proprietario originale.
Sono gli stessi che oggi permettono questo tipo di saccheggi e sono quelli che hanno distrutto il patrimonio di una nazione che è culla della civiltà occidentale, nonostante il fatto che, prima della guerra, numerosi intellettuali, numerose persone di pensiero in tutto il mondo avessero reclamato che rispettassero quei siti storici.
Vorrei ricordare nella nostra tavola un lavoro fatto dalla giornalista Esther Barroso immediatamente dopo lo scoppio della la guerra sui siti sacri della cultura universale.

Esther Barroso — Il novantenne scrittore argentino Ernesto Sábato, premio Cervantes in Letteratura, pianse davanti a migliaia di bambini chiedendo che non fosse distrutto un paese, una storia.
Sa, come molti altri al mondo, che questo sarà un crimine di lesa umanità; ma conosce anche che l'Iraq non è, come credono Bush e i suoi alleati, un oscuro angolo del mondo, ma la maggior parte di quello che fu la Mesopotamia, culla della civiltà umana.
Oltre alle vittime innocenti, cos'altro può morire nell'Iraq con questa guerra. Niente meno che una delle tracce artistiche e architettoniche più antiche dell'umanità, datata 9.000 a.C. Nell'Iraq possono morire, ad esempio, le tracce della civiltà sumerica, che inventò i primi segni della scrittura cuneiforme, considerata il grande contributo della Mesopotamia all'umanità.
Svilupparono anche un sistema proprio d'irrigazione per la prima volta nella storia, inventarono la semina in solchi, un sistema di fognature e l'architettura come arte.
Ecco come dovette essere 4.000 anni prima della nostra era la città sumerica di Ur. Di quello splendore oggi ne rimangono le tracce, adesso in pericolo di essere sterminate.
Bush potrebbe anche distruggere le tracce dell'impero assiro, a 500 chilometri di Baghdad, che, tra altri valori, creò la biblioteca le cui tavole di scrittura cuneiforme hanno consentito di capire in grande misura le origini della civiltà.
Conoscerà Bush che in questo luogo, a solo 90 chilometri di Baghdad, si sviluppò la città di Babilonia? Può darsi che il genocida del XXI secolo non abbia mai sentito parlare dei giardini prensili che fece costruire il re Nabucodonosor verso l'anno 600 a.C. ritenuti in seguito una delle sette meraviglie del mondo, o della mitica Torre di Babele che si pensa sia stata costruita sulle sponde del fiume Eufrate.
È forse questa la guerra contro le storie delle Mille e una notte, nate possibilmente a Baghdad, città costruita nel 762 d.C.? Molti dei valori creati dalle successive civiltà della Mesopotamia, come la Porta d'Istar, sono oggi fuori dell'Iraq, disperse in musei del mondo; ma tante altre sono custodite nel Museo iracheno di Baghdad.
Saranno distrutti dai missili di questa spietata guerra?
Secondo Bush, l'uso della forza è solo per disarmare il regime iracheno, ma chi lo fa capire allo scrittore Ernesto Sábato, di 92 anni, che piange per l'Iraq? Chi gli fa capire che le acque dei fiumi Tigri ed Eufrate, che videro nascere e crescere la civiltà, saranno adesso testimoni della barbarie che arriva dal mondo moderno?
Nel sepolcro della principessa assira Java, scoperto nel 1989 vicino a Bagdad, una iscrizione recita: "Maledetti per sempre coloro che irrompano nella tomba e rubino il tesoro!" Oggi la principessa sembra dirci con la sua millenaria voce: "Maledetti per sempre coloro che distruggono la vita e il tesoro dell'umanità!"

Randy Alonso — Un tesoro dell'umanità consumato dalle fiamme, saccheggiato in presenza delle truppe imperiali, delle truppe d'invasione.
Una notizia dell'agenzia EFFE, di oggi, da Baghdad, dice che "sono sempre più numerosi gli iracheni che vanno a protestare davanti all'hotel Palestina di Baghdad, dove gli Stati Uniti hanno creato un embrione dell'amministrazione civile per l'Iraq, un giorno dopo l'incendio alla Biblioteca Nazionale e al Centro di Studi islamici perpetrato dai saccheggiatori.
"Oltre 300 persone con cartelli protestavano questa mattina davanti ai soldati degli Stati Uniti, che proteggono l'hotel con fil di ferro, armi e carri armati, per esigere sicurezza in una città senza legge di circa 6 milioni di abitanti".
"Gli animi sono sempre più eccitati e ciò che è cominciato con tiepide domande si è convertito adesso in conversazioni irate con le truppe occupanti e in molti casi con slogan antiamericani".
"L'ultimo episodio di saccheggio ha avuto luogo al Centro di Studi Islamici con 15.000 volumi e situato al fondo del Ministero degli Affari Islamici, che è stato assaltato e incendiato questa mattina".
"Anche la Biblioteca Nazionale dell'Iraq è stata oggetto ieri sera della barbarie e la maggior parte del milione di documenti, libri, carte, microfilm e archivi sono stati rubati o distrutti".
"Secondo il direttore di questa biblioteca "si sono persi esemplari antichi del Corano e del primo giornale editato in Iraq nel 1969 in lingua persiana. Sin dall'invasione dei mongoli non conoscevamo niente di simile, si sono persi 700 anni di storia", affermò. Qualcosa di simile è accaduto al Museo Nazionale di Baghdad.
Le agenzie di notizie sabato scorso pubblicavano che "il Museo Nazionale dell'Iraq, con pregiate collezioni delle culture sumerica, accadica, babilonica e assira, oltre ai testi islamici unici, è rimasto interamente spoglio il sabato dopo l'irruzione di una turba di saccheggiatori che da giovedì approfitta del caos che regna nella capitale irachena da quando sono arrivate le forze anglo-statunitensi".
"I vandali si sono portati via tesori insostituibili delle prime civiltà, recipienti d'oro, maschere rituali, ornamenti reali, lire con gioielli incastonati e oggetti dell'antica Mesopotamia". "Sono stati saccheggiati 7.000 anni di civiltà", si lagnava un impiegato del luogo.
Una notevole artista cubana, la pittrice Lesbia Van Dumois, vicepresidente della Casa de las Américas, è stata una delle cubane che ha avuto il privilegio di visitare il Museo Nazionale di Baghdad, di vedere la ricchezza di quel Patrimonio dell'Umanità che è stato saccheggiato davanti allo sguardo delle forze d'invasione dell'Iraq, e anche lei ha voluto dare la sua testimonianza per la nostra tavola rotonda di oggi.

Lesbia Van Dumois — È stato un privilegio, soprattutto se pensiamo a quello che è successo attualmente con questo museo. Alla fine degli anni '80, in occasione di un incontro dell'Associazione Internazionale di Arti Plastiche sponsorizzato dall'UNESCO, ho avuto il privilegio di aver visitato quella città, infatti una bellissima città, e di aver visitato, tra l'altro, il museo, dove c'erano tutti i valori non solo di questa città originaria, che è all'origine della nostra cultura occidentale; ma anche di aver visto i pezzi, le tavole in ceramica dell'alfabeto cuneiforme, di aver visto le teste, tutte le collezioni in oro che c'erano a quel museo, dove veramente erano ben piazzate.
Non so se quel museo aveva... Come edificio era molto vecchio; ma mi sembra sia stato ristrutturato uno o due anni prima della nostra visita.
Credo che, oltre ai suddetti valori, pensare a Baghdad è come essere in un altro mondo; una città che, inoltre, aveva un'architettura assai bella. Il museo non era un museo gigantesco, non ti colpiva tanto per l'architettura quanto per i suoi pezzi, con una museografia che ti permetteva di capire la storia, e c'erano quelle meravigliose teste, numerosi pezzi in oro veramente impressionante.
Anche se non era specificamente di quel museo – che conosciamo adesso che è stato saccheggiato –, non vorrei concludere senza parlare di Babilonia, città che ho avuto occasione di visitare, una città un po' triste perché non era più la Babilonia che immaginavamo e volevamo vedere; ma ho avuto l'occasione di vedere quel meraviglioso friso pieno di grifi e di vedere, almeno, una delle figure, un leone delle dimensioni dei leoni che esistevano in quel territorio, che veramente era la somma di una cultura e di un'espressione artistica invidiabile; ci auguriamo che in questo momento alcuni dei pezzi possano essere salvati perché sono il patrimonio di questa umanità che stiamo distruggendo.

Jornalista — Lesbia, nel corso della storia Baghdad e il territorio iracheno sono stati spogliati dei loro valori che sono stati trasferiti ad altri musei del mondo; ma ciononostante, se lei potesse comparare il valore di questo museo, dei pezzi che conservava questo museo con quelli del museo britannico o di altri del mondo.

Lesbia Van Dumois — Penso che la maggior parte dei musei di altri paesi occidentali si sono nutriti dei tesori saccheggiati agli altri. Se pensiamo al Messico, dove molte delle cose della sua storia pre-ispanica sono in Europa, al Pergamon, quasi tutti i tesori si trovano in altre città. Ma, infatti, oggi la direttrice del nostro Museo Nazionale, che ha una vasta esperienza riguardante il patrimonio, mi diceva che era molto difficile valutare i musei perché i valori non sono soltanto quelli che vedi nelle sale. Io non ho avuto occasione di vedere i fondi del museo di Baghdad, ma tenendo conto di quanto era in mostra, i tesori che potevano esserci nei fondi e che ne costituivano il patrimonio ti direi che non potrei valutarli, tanto grande è il loro valore. È impossibile valutare sia dal punto di vista monetario che culturale, la possibilità di vederli, il piacere di ammirarli proprio nel paese originario, nel paese che questi pezzi d'arte rappresentano è qualcosa che non si può valutare.

Randy Alonso — Robert Fitz, uno dei giornalisti che meglio conosce la zona del Medio Oriente, che ha anche difeso con la sua penna il patrimonio culturale dei paesi arabi, si chiedeva alcuni giorniin un articolo: "Perché? Come hanno potuto far questo? Perché quando la città era in fiamme e l'anarchia aveva già fatto presa, e meno di tre mesi dopo che gli archeologi statunitensi e i funzionari del Pentagono si riunissero per parlare dei tesori del paese e fosse incluso il Museo Archeologico di Baghdad in una base militare per evitare che fosse bombardato, gli statunitensi hanno permesso che la turba distruggesse l'incalcolabile eredità dell'antica Mesopotamia. E tutto ciò è successo mentre il segretario della Difesa degli Stati Uniti, Donald Rumsfeld, si beffava della stampa perché aveva informato che "l'anarchia si era impadronita di Baghdad".
Robert Fitz, che pure oggi si domandava com'era possibile che 2.000 solati custodissero i pozzi di petrolio a Kirkuk e non ci fossero neanche 200 soldati nordamericani per custodire la grande ricchezza patrimoniale di Mosul.
Robert Fisk si domandava ancora perché le truppe nordamericane circondano il Ministero degli Interni e quello dell'Energia dell'Iraq, mentre nel resto della città viene saccheggiato indiscriminatamente il patrimonio culturale della suddetta nazione.
È anche un'espressione concreta della barbarie dell'invasore, dell'incultura dell'amministrazione nordamericana che cerca di imporre questa dittatura fascista mondiale; un'amministrazione che è arrivata al potere mediante la frode e che grazie alla forza e alla violenza ha cercato di legittimarsi; un'amministrazione che è molto lontana dai veri ideali del popolo nordamericano, un popolo idealista, di nobili sentimenti di cui Pablo Armando Fernández ha conosciuto profondamente sia la vita che la ricchezza culturale.
Come valuta oggi Pablo Armando Fernández la cultura, le idee e il ruolo del popolo nordamericano di fronte a questo gabinetto neofascista?

Pablo A. Fernández — Infatti, sono arrivato negli Stati Uniti nel 1945, c'era una guerra contro il fascismo. Quanti anni sono trascorsi? Mezzo secolo, diciamo. Cinque anni dopo, non era più lo stesso paese, McCarthy cercava già di cambiarlo, di sporcarlo, di abbruttirlo, ha fatto molto danno.
Tuttavia, il popolo di cui abbiamo parlato prima, di cui parliamo ogni volta, quelli che dicono "Non nel nostro nome", rimane un grande popolo.
Mi preoccupa comunque la nazione nordamericana. Pensiamo che gli Stati Uniti di America hanno fatto la prima rivoluzione in questo continente contro il colonialismo; prendiamo in considerazione quegli schiavi che dopo una guerra civile tra i signori capitalisti, di entrambi i lati, ma per altri interessi, fecero una guerra civile guadagnandosi la libertà; a loro venne data una voce e parte del viso degli Stati Uniti. Pensiamo agli ebrei, agli islamici, ai cristiani che vi arrivavano fuggendo dalla persecuzione nei loro paesi, disperati, affamati, delusi, e come tutta questa gente, i discendenti di tutti questi popoli vollero dare uno spirito a quella nazione. Quello spirito si esprimeva attraverso la poesia, la narrativa, il saggio, il teatro, la musica, il cinema, e ci ha trasmesso un concetto veramente profondo, serio dello spirito, dell'anima di ciò che potrebbe diventare l'essere nordamericano.
Quegli esseri sono là, e quegli esseri sono tanto potenti che le loro voci continuano a reclamare che quella guerra che terrorizza tutti non sia sferrata nel loro nome; perché vediamo come, ad un tratto, si saccheggiano i fondi culturali, e ho molta paura che venga saccheggiato anche il fondo spirituale di quella nazione.
Tuttavia, siamo certi che tutti quei signori e quelle signore, tutti quegli uomini e quelle donne che hanno firmato questi documenti difendono questo spirito, e questo ci incoraggia; ma non possiamo trascurare niente di ciò, e nemmeno loro possono farlo. Non possiamo trascurare niente perché sebbene diciamo no, quelle forze sinistre, senz'anima, possono danneggiare il fondo di quello spirito, che è anche il nostro, perché quello spirito è diventato universale in modo da incidere fortemente sulla letteratura, sul cinema, sul teatro e su tutte le arti concepibili al resto dell'umanità e vediamo che Simon de Beauvoir dice meraviglie di Faulkner, e così è avvenuto con altri scrittori; in Inghilterra, in Francia e in Italia c'è una profonda ammirazione per questi esseri che danno prove della sensibilità, del talento, dell'immaginazione di un popolo che vuole definirsi come tale.
Ci auguriamo che tutti loro mantengano la loro voce in alto, perché il loro paese mantenga il viso e la voce; ma è anche una nostra responsabilità il proteggerli, preoccuparci di loro, alimentare i loro spiriti, dicendogli: "Siete là, lottate là, ma noi da qui lotteremo con voi, saremo tutti insieme dappertutto e non ci vinceranno".
Non vinceranno perché le loro associazioni sono molto oscure e quell'oscurità non genera alcuna luce; quindi, aiuteremo quelle voci indispensabili al nostro essere, che sono le voci di quei fratelli nordamericani che fanno dell'arte e della cultura lo spirito universale che assiste noi tutti.

Randy Alonso — E ovviamente da quella voce del popolo nordamericano nasce la loro grande cultura, lo spirito che hanno trovato gli artisti cubani ogni volta che visitano quel paese e che trovano nel popolo che si esprime in un'accoglienza come quella che i nordamericani ricevono a Cuba, quando visitano il nostro paese e che fa parte della tradizione culturale e nobile del popolo nordamericano, come l'ha ricevuta in tournée per quel paese il Balletto di Lizt Alfonso, che ha visitato numerose città nordamericane, tra cui New York, Cleveland, Seattle, Austin, Texas, New Haven, Connecticut e altri luoghi della geografia nordamericana in cui ha ricevuto lodi critiche del giornale The New York Times, che parlava del trionfo del sabato sera, quando Lizt Alfonso si presentò al Brooklyn Center della città di New York, o il Chicago Sometimes che diceva che il balletto di Lizt Alfonso era una miscela sensuale di fuoco e di condimenti, un vistoso flamenco alla maniera cubana, come lo qualificava un'altra importante pubblicazione di quel paese.
Cosa ha trovato Lizt Alfonso durante la sua visita negli Stati Uniti? Lizt è qui con noi e le chiederei di parlarci di quel sentimento che ha trovato negli Stati Uniti, su come ha vissuto la contraddizione di un paese in guerra e sulle manifestazioni per strada. Cosa può dirci Lizt di questo popolo nordamericano che lei ha visto e con il quale ha fraternizzato durante la visita al territorio statunitense?

Lizt Alfonso — Ho visto che lo spirito umano, lo spirito di solidarietà, d'amore, di fiducia e di sicurezza, del quale parlava Pablo Armando, di cui ho apprezzato molto tutto quanto detto, può essere al di sopra di tutto.
Infatti l'arte – come sappiamo – rompe tutte le barriere, per gli artisti non c'è niente d'impossibile, ed è questo che abbiamo vissuto durante la nostra tournée negli Stati Uniti.
Ricordo che ho scritto a mia madre un e-mail dove le dicevo: "Finora non ho trovato un pubblico che non ci ami. Quando abbiamo cominciato a ballare la Malagueña e alla fine di questo ballo (è il primo numero dello spettacolo), il teatro tremava per l'entusiasmo. È il termometro di tutta la funzione. Immagini cos'è successo alla fine?
In effetti, alla fine tutti applaudivano in piedi.
Spesso gli spettacoli erano interrotti perché se al pubblico piaceva una cosa cominciava a gridare, ad applaudire, in quanto sono molto espressivi... ecco quello che abbiamo visto.
Fortunatamente, nei giorni che siamo stati là la guerra non si era ancora scatenata, infatti è cominciata quando la nostra tournée era ormai finita; ma prima dell'inizio della guerra siamo stati testimoni che in molte città le persone erano contro la guerra, le persone non volevano la guerra e lo dicevano in molti modi; cioè facevano manifestazioni sia nelle strade che nelle università – mi ricordo della Jolla –, e c'erano tutti gli studenti negli angoli con cartelli che dicevano: "Per favore, se è contro la guerra, faccia sentire il claxon" due o tre volte, non ricordo bene.
Anche a Seattle siamo stati colpiti perché in quasi tutte le case – non dobbiamo essere assoluti – c'erano scritte che dicevano "No alla guerra", e anche questo ci ha colpito perché nemmeno noi siamo d'accordo con la guerra.
Penso che nessuno vuole la distruzione di sé stesso, né vuole la distruzione dei figli, né vuole la distruzione della storia, della storia dell'umanità, quindi, è stata una tournée in cui ha regnato l'amore, la comprensione.
Loro hanno un grande interesse per Cuba e, nel conoscere Cuba e fortunatamente noi eravamo lì per dirgli: "Noi siamo Cuba, e ci potete chiedere tutto quello che volete". Abbiamo fatto molti spettacoli, 23 per l'esattezza. Abbiamo letto conferenze, impartito lezioni magistrali, e in ogni luogo dove siamo stati abbiamo percepito un'enorme avidità di sapere tutto ciò che facciamo.

Randy Alonso — Lizt, abbiamo qui ricordato il pensiero di Lincoln quando diceva che tutto il popolo non poteva essere ingannato per sempre, e credo che ciò che ci hai appena detto sulle dimostrazione nelle strade, ciò che abbiamo visto, sia anche un'espressione del sentimento dello stesso popolo nordamericano che, nonostante il potere mediatico e le influenze ideologiche che sono state utilizzate per propugnare la "giustizia" di questa guerra, come loro hanno cercato di presentarla, è sceso in piazza per protestare contro.
Però questo stesso pensiero si potrebbe applicare anche a Cuba.
Hai apprezzato qualche conoscenza su Cuba tra gli studenti che hai incontrato, in questo popolo nordamericano che tu hai visto, e quale sentimento hai potuto riscontrare nei tuoi confronti e nei confronti di Cuba?

Lizt Alfonso — In realtà su Cuba c'è molta ignoranza. Molte persone non sanno nemmeno dove si trovi Cuba, e molte volte quello che ti dicono è: "Cuba, Fidel, Fidel Castro è Cuba". E Cuba non è solo Fidel Castro; tutti noi siamo Cuba.
Loro cercavano sempre di fare uno scambio, un avvicinamento molto, molto, molto stretto affinché noi gli spiegassimo tutti questi dettagli. In un'occasione, durante uno scambio con alunni di una scuola media e media superiore, una High School che corrisponde al nostro pre universitario, le maestre ci dicevano: "Abbiamo dovuto prepararli da tempo, affinché sapessero qualcosa su Cuba e potessero così chiedervi tutto ciò che volevano su com'è Cuba, su che cosa fanno a Cuba", e ci facevano ogni tipo di domande, alcune molto interessanti, altre meno; ma noi eravamo lì pronti a rispondere a qualsiasi domanda, perché, lo ripeto, noi siamo Cuba.
Parlavi di Lincoln. Noi abbiamo avuto l'opportunità di visitare il Memoriale a Lincoln a Washington, ed è stata una cosa molto emozionante, perché mi sono resa conto che Lincoln è per gli Stati Uniti come Martí per Cuba; e realmente è stato molto emozionante e molto suggestivo poter studiare un po' più da vicino le sue parole su come deve essere il cammino che devono seguire gli uomini nello sviluppo dell'umanità. Già te l'ho detto: è stato davvero emozionante; un viaggio molto interessante, in cui ancora una volta l'arte è riuscita a stringere i legami tra i popoli, tra le persone.

Randy Alonso — Un'espressione di come la cultura possa affrontare la barbarie, di come davanti alla proliferazione delle idee fasciste, le idee delle fratellanza, dell'umanesimo, del meglio dell'essere umano proliferano anche nel popolo nordamericano e ci permettono questo scambio tra Cuba e gli Stati Uniti; uno scambio, che, nel momento in cui tu eri là, lo hanno avuto anche i piccini di "La Colmenita" ("Piccolo Alveare"; gruppo di teatro infantile di Cuba; N.d.T.) e Cremata, il loro direttore, che è qui nello studio insieme ad alcuni componenti del piccolo alveare che visitarono gli Stati Uniti.
Cremata, io vorrei chiederti la tua visione di questo confronto con il popolo nordamericano, come questo pubblico vi ha ricevuto, tenendo conto che la vostra non è una compagnia professionale come quella di Lizt, bensì un gruppo di bambini che portavano l'arte dei piccini cubani negli Stati Uniti, e spiegaci anche come vi siete trovati di fronte ad un'espressione – perché io ho letto alcuni rapporti che arrivavano dagli Stati Uniti – caricaturale di questo fascismo proprio lì negli Stati Uniti.

Carlos A. Cremata — Lasciatemi raccontare una piccola storia, e questa, come tutte le storie per bambini ha un suo "c'era una volta..."
C'era una volta... nell'anno 1998, qui a Cuba, nel teatro Nacional, abbiamo fatto uno spettacolo della "Cucarachita Martina" (famoso racconto per bambini; N.d.T.) la stessa che abbiamo fatto in quel periodo con i bambini della scuola "Solidaridad con Panamá". A questo spettacolo ha assistito una delegazione nordamericana molto grande, formata da personalità della scienza e della cultura: c'era Mohamed Alí, Edward Ashner e molti importanti scienziati.
Questa idea nacque lì; improvvisamente Mohamed Alí disse, molto emozionato dopo aver visto lo spettacolo, che "forse se si presentava lo spettacolo negli Stati Uniti esso avrebbe spiegato meglio di migliaia di discorsi la cultura, l'istruzione e la sanità a Cuba.
La palla di neve cominciò a ruotare e al progetto aderì Patch Adams, "il medico delle risate", poi Belafonte, e il mitico gruppo Bread and puppet theater... molte persone e molte organizzazioni, e alla fine una fondazione molto nobile, che ha portato a Cuba più di 15.000 personalità nordamericane, che si chiama Global Exchange, ottenne quello che sembrava impossibile dopo molti anni: portare, come dicevano loro, la prima delegazione artistica infantile cubana negli Stati Uniti in più di 45 anni, così diceva lo slogan.
Noi ci chiedevamo: ce ne sarà stata qualcuna più di 45 anni fa?
Non lo so, mi sembrava un poco più difficile prima di 45 anni fa, comunque, questo era lo slogan della delegazione.
Siamo arrivati lì e la prima cosa che ci è successa, dopo tanti difficili ostacoli: prima il famoso problema dei visti che tutti abbiamo patito, ed è così forte questo problema che proprio lo stesso giorno della partenza ci hanno rilasciato i visti. Ci avevano detto che erano stati rilasciati tutti i visti ma quando siamo arrivati ci hanno detto che si erano dimenticati di quattro di essi, tra cui quello della persona specializzata che accompagnava Mabelita, una bambina che stupisce tutto il popolo di Cuba, che la conosce e l'ama, e che noi chiamiamo l'ape regina, la bambina della scuola "Solidaridad con Panamá", che ha quel talento meraviglioso, e che ora studia nella Scuola di Istruttori d'Arte; così Mabelita non ha potuto viaggiare. Questo le ha provocato, logicamente, una profonda tristezza, perché dopo essersi preparata bene, non ha potuto viaggiare perché la persona che l'aiutava non poteva accompagnarla con lei perché non aveva il visto. Insomma, non hanno potuto viaggiare quattro compagni che erano indispensabili per la tournée.
Durante il primo spettacolo, all'Università Cattolica di San Diego, una bellissima università, ci è successo una cosa insolita: la stampa, la radio e la televisione avevano annunciato che Alpha-66 (Gruppo terrorista cubano americano; N.d.T.) preparava una manifestazione contro questi bambini piccolissimi, una cosa realmente aberrante.


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