Nella sua biografia si parla di una donna che infranse regole e morale borghese creando scalpore e subendo conseguenze.
Era mia madre che fu diseredata dai suoi genitori, spagnoli e molto ricchi, quando decise di sposarsi con un cubano, nero e giocatore di baseball, il cui nonno era stato schiavo di un signore basco di nome Portuondo. Io sono figlia di quei due innamorati "scandalosi" che sfidarono apertamente la classista e razzista Cuba degli anni Venti.
E allora la giovanissima mulatta Omara come faceva a frequentare i locali del Vedado o le zone off limits ai neri?
Come artista potevo suonare nei club dell'Avana riservati ai bianchi, ma un cittadino di colore, nero o mulatto che fosse, non poteva entrare come spettatore. Una realtà terribile che non dimentico e durò fino al trionfo della Rivoluzione, che cinquant'anni fa cancellò la discriminazione razziale.
Dove e come è iniziato il suo cammino musicale?
A Cayo Hueso, un quartiere del Centro Avana ricco in ogni ora del giorno di ritmi e canti, dove sono nata nel 1930. Stimolata dai miei genitori — grandi appassionati di musica — iniziai da bambina a studiare canto, ballo e recitazione ed ero ragazzina quando cominciai a frequentare los muchachos del feeling, un gruppo di giovani musicisti che ha contribuito alla mia formazione. Il mio esordio artistico fu a metà degli anni Quaranta, con il quartetto Loquibambia del pianista Frank Emilio Flynn. La musica diventò la mia professione nel 1949, quando entrai nel prestigioso quartetto del compositore-pianista Orlando de La Rosa, con il quale nel 1951 andai in tournée per sei mesi negli USA; nel gennaio del 1952 partii per Haiti con l'orchestra femminile Anacaona e poco dopo iniziò la fantastica stagione con Las D'Aida, il quartetto vocale femminile più importante di Cuba diretto dalla pianista Aida Diestro: lavoravamo nei cabaret più noti della capitale come il Tropicana, Sans Souci e Club 21, molto spesso assieme ad artisti internazionali quali Nat King Cole, Tony Bennett, Johnny Ray, Cab Calloway, Sarah Vaughan, Tommy Dorsey, Edith Piaf, Maurice Chevalier...
Già, il feeling, un movimento estetico-musicale per alcuni aspetti abbastanza simile alla bossa nova creata in Brasile nel decennio successivo. Può farcene un ritratto?
Mi chiamano "la novia del feeling", cioè la fidanzata, perché ero la ragazza fissa che cantava con il gruppo di amici capeggiato dai chitarristi-compositori José Antonio Méndez e César Portillo de Luz. Questi giovani musicisti rielaborarono la tradizione del bolero e della canzone romantica creando un nuovo linguaggio, armonicamente più ricco e moderno: "los muchachos del feeling" amavano sia la musica cubana sia il jazz, non erano esterofili e yanquí, come dissero alcuni. Si riunivano a pochi passi da casa mia, in Callejon de Hammel, nella casa di Tirso e Angelito Diaz. All'inizio era un cenacolo artistico di appassionati, poi diventò itinerante spostandosi da una casa all'altra. Io cantavo brani in inglese o in spagnolo e un bel giorno ci esibimmo gratuitamente a radio Mil Diez.
... ma in particolare con la crisi dei missili, che provocò la rottura delle relazioni diplomatiche fra gli Stati Uniti e Cuba. Da lì l'abbandono dell'Isla di molti artisti che sognavano New York. Lei invece, che si trovava negli USA, tornò a casa tra "i ribelli", è cosí?
Esatto. Gli individui, da sempre, credono che all'estero sia tutto più facile, migliori condizioni di lavoro, successi e quindi tentano l'avventura, una scelta che rispetto ma non condivido. Infatti, stavamo suonando negli Stati Uniti quando si incrinarono i rapporti con il mio Paese. Alcuni colleghi della mia compagnia non rientrarono mentre io e altri andammo controcorrente: decidemmo di tornare a lavorare e vivere a Cuba, con tutti i cambiamenti in atto e che a me piacevano. Restai a cantare nel mio Paese, come fecero mia sorella Haydée, Elena Burke, Moraima Secada, insomma le grandi voci. Poi molti anni dopo mia sorella se ne andò negli Stati Uniti e l'unica cosa certa è che non cantò più.
Il feeling — come il bolero, la trova, il tango ecc. — ha il suo "rincón" (angolo) dove si ritrovano gli aficionados. Dov'è oggi il tempio avanero del bolero jazzato?
Il Rincón del Feeling ha avuto sede nel Pico Blanco fino a qualche anno fa, ma ora non è più il ritrovo dei filineros. Oggi nello stesso luogo, il Pico Blanco, all'ultimo piano dell'Hotel St. John — quasi all'angolo con il jazzclub La Zorra y El Cuervo — puoi ascoltare feeling mescolato ad altri stili. Per esempio, Beatríz Márquez si accompagna con il piano cantando bolero, feeling, son, cha cha chá. Purtroppo il tempo passa, i fondatori del feeling sono quasi tutti scomparsi, l'unico vivente è l'ottantasettenne César Portillo de La Luz: lui non lavora più, ma le sue composizioni e gli altri "classici del feeling" continuano però a circolare con vigore.
Dagli anni Settanta lei è la voce di Cuba che più di ogni altra ha girato nel mondo; negli Ottanta ha fatto tappa anche in Italia accompagnata dalla band di Adolfo Pichardo con il dotatissimo chitarrista cieco Martín Rojas, e in quell'occasione ci siamo conosciuti. Oggi dov'è Martín? E ci sono differenze tra le sobrie tournée dell'Ottanta e quelle sfavillanti di oggi?
Da diversi anni Martín Rojas — uno dei fondatori della Nueva Trova e ottimo compositore — vive con la sua famiglia a Miami, sta bene e nel mio nuovo CD interpreto una della sue canzoni che si chiama Cuento para un niño. Ricordo bene la tournée con quegli spettacoli, alcuni in contesti originali, si respirava uno spirito diverso, c'era una scarna "dieta", come diciamo noi a Cuba, per riferirci ai pochi dollari di diaria su cui contare per le piccole spese. Ma tutto era a carico degli italiani e in molte situazioni eravamo ospiti nelle vostre case. Per me è stata un'esperienza meravigliosa perché trovavamo un appoggio spontaneo per far conoscere la nostra cultura, esclusa allora dai grandi circuiti internazionali. Non dimenticherò l'amicizia che ci avete dimostrato, quelle iniziative ricche di sentimenti, di valori e voglia di scambiare conoscenze, e senza il denaro di mezzo.
Ma oltre al pane ci voleva il companatico. E alla fine del secolo scorso l'evento inatteso grazie ad alcune coincidenze e all'abilità di Ry Cooder & C. Dal momento della sua consacrazione "a diva del Buena Vista Social Club" quanto e come sono cambiati psicologicamente la sua vita e il suo ruolo di artista?
Innanzitutto, mi preme dire che il risultato del Buena Vista — fenomeno musical/mediatico — dimostra l'errore di chi vi chiedeva di accorciare le nostre esibizioni. Tanti si sono ricreduti vedendo il successo mondiale del progetto di Ry Cooder & C: è lo stesso materiale di quindici anni prima ma con un buon marketing alle spalle. Certo l'evoluzione fa modificare il pensiero ma... Comunque, è un riconoscimento al preveggente lavoro del vostro gruppo associativo. Ora rispondo alla domanda. Sono la medesima persona che lei ha conosciuto negli anni Ottanta. È vero, ora ci muoviamo nel business, ritorniamo a casa con un po' di soldi. Io vivo sempre nel Vedado all'Avana, stessa casa, non c'è niente di grandioso od opulento dopo il successo. La cosa più grande è vivere nella mia terra con i miei famigliari, anche se mi mancano i colleghi scomparsi del Buena Vista e restano in pochi, tra cui Manuel Guajiro Mirabal, Cachaito López che portano avanti il gruppo incorporando giovani talenti come il percussionista Terry e il pianista (e ottimo jazzista) Rolando Luna.
Con Buena Vista è andata a festival del jazz, condividendo il palcoscenico con grandi figure della musica afroamericana.
Sì, ricordo quello in Giappone assieme a Herbie Hancock, Michael Brecker cantando standard jazzistici; poi il Jazz Heritage di New Orleans, che fu anche l'occasione per vedere lo splendore della città che considero il punto di partenza della storia del jazz. Un luogo che auspico riprenda la sua vita normale dopo il disastro di Katrina, una vicenda con gravi responsabilità dei governanti, una brutta pagina che mi ha fatto male per il rifiuto di Bush al nostro Paese che offriva trecento medici volontari per aiutare gente disperata e malata.
In pista dagli anni Quaranta: vuole ricordarci il primo e l'ultimo album da solista?
Magia Negra è il disco del debutto come solista e lì combinavo musica cubana con il jazz nordamericano. Era un cosa normale, perché gli Stati Uniti sono a due passi da noi e in quel periodo le case discografiche facevano moltissima promozione della loro musica, andavano di moda Glenn Miller, Tommy Dorsey, Ellington e altri grandi nomi che venivano a suonare a Cuba. In Magia Negra inserimmo versioni di That Old Black Magic e di Caravan, ma anche pezzi cubani come No puedo ser feliz del grande direttore e compositore Adolfo Guzmán. Registrammo il disco nel 1958, negli studi di Radio Progreso all'Avana poco prima di andare a suonare al Club Fontainebleau di Miami, con bravi musicisti tra cui il pianista-jazzista Julio Gutiérrez e il batterista Walfredo de Los Reyes, che poi lasciarono Cuba. Gracias è l'ultimo CD: vi celebro sessant'anni di attività e lo dedico a tutti coloro che mi hanno aiutata in questo percorso artistico: compositori, arrangiatori, produttori, pubblico. Per questa importante tappa ho voluto con me musicisti e cantautori eccezionali, tra cui i miei connazionali Pablo Milanés, Cachaito López e Roberto Fonseca, l'uruguayano Jorge Drexler, autore della title-track Gracias che cantiamo assieme; il chitarrista Swami Jr., brasiliano come Chico Buarque con cui duetto in O que será, poi il contrabbassista israeliano Avishai Cohen e il multipercussionista indiano Trilok Gurtu. Nel cast, tra gli altri, ci sono anche Chucho Valdés — che interpreta Nuestro gran amor, una composizione di mio figlio Ariel Jiménez Portuondo — e Rossio Jiménez, la mia nipotina di nove anni con la quale canto la famosa Cachita del portoricano Rafael Hernández.