Il cacique taíno Hatuey, originario della regione di Guahaba nell'isola di Hispaniola, all'arrivo degli Spagnoli, lasciata la sua isola, raggiunse Cuba e si stabilì nella regione orientale dove informò gli altri indiani degli orrori di cui era stato testimone nella sua terra.
Gli indiani, decisi a lottare contro il nemico, si organizzarono sotto il suo comando e, sfruttando la conoscenza dei luoghi e la fitta vegetazione, tennero in scacco per lungo tempo l'esercito spagnolo comandato da Diego Velázquez de Cuellar, conquistatore e primo governatore dell'isola. Hatuey fu catturato circa tre mesi dopo, vicino alla città di Bayamo, e quindi condannato a morire al palo.
Impietositosi, un frate spagnolo tentò di convertirlo al Cristianesimo e di battezzarlo. Il frate parlò all'indiano anche del Paradiso.
Si dice che, dopo aver pensato a lungo, Hatuey chiese dove andassero le persone battezzate dopo la loro morte. Il frate rispose: "In Paradiso". Hatuey chiese se anche gli Spagnoli andassero in Paradiso dopo la loro morte.
Alla risposta affermativa del frate, Hatuey affermò che preferiva andare all'Inferno invece che in Paradiso perché lì, perlomeno, non avrebbe incontrato Spagnoli.
La storia di Hatuey, considerato come il primo eroe nazionale cubano e simbolo della lotta per l'indipendenza (ma non bisogna dimenticare che oltre a quella di Hatuey, grande considerazione ha anche un'altra figura di fiero indiano, quella del cacicco Guamá, che nel 1528 capeggiò una feroce rivolta contro gli invasori spagnoli), è a tutto oggi molto viva nell'isola, in special modo a Baracoa, dove sorge un monumento a lui dedicato.
La statua di Hatuey a Baracoa.
Fotografia di Marco Gargiullo
del Sito Blog Cubanite:
http://cubanite.blog.dada.net/.
Molto viva è la sua figura anche a Camagüey e in generale nelle province orientali di Cuba e molti sono ancora coloro che raggiungono in pellegrinaggio Yara, nei pressi di Bayamo, il luogo dove si dice il capo indiano fu arso vivo e dove egli si presenta tuttora sotto forma di luce (la famosa Luz de Yara, su cui vi è molta mitologia), per reclamare l'oro rubato dagli Spagnoli all'isola cubana.
I poeti cubani non hanno mancato di dedicare alla figura di questo coraggioso capo indiano composizioni poetiche; assai conosciuta è, per esempio, questa ode ad Hatuey e alla sua donna Guarina del celebre poeta popolare Juan Cristobal Nápoles Fajardo, detto El Cucalambé, cantor de la cubanía campesina:
Hatuey y Guarina
Con un cocuyo en la mano
y un gran tabaco en la boca,
un indio desde una roca
miraba el cielo cubano.
La noche, el monte y el llano
con su negro manto viste,
del viento al ligeroembiste
tiemblan del monte las brumas,
y susurran las yagrumas
mientras el suspira triste.
Lleva en la frente un plumaje
morado como el cohombro,
y el arco que tiene al hombro
es un vastago de aicuaje.
Aunque es un pobre salvaje
y angustia cruel lo sofoca,
desde aquella esbelta roca
donde gime sin consuelo,
los ojos fija en el cielo
y a Dios en su ayuda invoca.
Oye el rumor de los vientos
en los atejes erguidos,
oye muy fuertes crujidos
De los cedros corpulentos
oye los tristes acentos
del guabairo en el corojo,
y mientras su acerbo enojo
reprime con gran valor,
siente a sus pies el rumor
de las aguas del Cayojo.
Un silbido se escapo
de sus labios al momento,
con pausado movimiento
una indiana aparecio.
Cuando a la roca subio
el indio ante ella se inclina,
fue su frente peregrina
el iman de su embeleso,
oyose el rumor de un beso
y la dijo: Adios Guarina!
Oh! No, mi bien, no te vayas,
dijo ella entre mil congojas,
que tiemblo como las hojas
de las altas siguarayas.
Si abandonas estas playas
si te separas de mi,
llorare angustiada aqui
cuando tu nombre recuerde
como el pitirre que pierde
su nido en el ponasi.
Que sera de tu Guarina
sin tu amor, sin tu ternura?
Flor del guaco en la espesura,
palma triste en la colina,
garza herida por la espina
del yamaguey en la rama
y cual triste caguama
que a los esteros se zumba,
llorare y sera mi tumba,
La Cienaga de Virama.
Oyo el indio enternecido
tan triste lamentacion,
palpito su corazon
y se sintio conmovido.
Ahogo en su pecho un gemido
la viramesa infelice,
y el indio que la bendice
y mas que nunca la adora
las blancas perlas que llora
enjuga tierno y la dice:
Oh Guarina! Ya revive
mi provincia noble y bella,
y pisar no debe en ella
ningun infame caribe.
Tu ardiente amor no me prive,
mi Guarina, de ir alla.
Latiendo mi pecho esta
y mi sentido se inflama,
porque a su lado me llaman
los indios de Guajapa.
Yo soy "Hatuey", indio libre
sobre tu tierra bendita,
como el caguayo que habita,
debajo del ajenjibre.
Deja que de nuevo vibre
mi voz alla en mi batey
el dulce son de mi guamo
y acudan a mi reclamo
y sepan que aun vive Hatuey.
Oh Guarina! Guerra, guerra!
Contra esa perversa raza
que hoy incendiar amenaza
mi fertil y virgen tierra,
en el llano y en la sierra
en los montes y sabanas,
esas huestes caribanas
sepan al quedar deshechas,
lo que valen nuestras flechas,
lo que son nuestras macanas.
Tolera y sufre, bien mio,
de tu fortuna el azar,
pues tambien sufro al dejar
las riberas de tu rio.
Siento dejar tu bohio,
silvestre flor de Virama,
y aunque mi pecho te ama,
tengo que ser, oh dolor!
Sordo a la voz del amor,
porque la patria me llama.
Asi dice aquel valiente,
llora, suspira, se inclina,
y a su preciosa Guarina,
dio un beso en la tersa frente.
Beso de amor, beso ardiente;
sublime, sonoro y blando,
y ella con otro pagando
de su amante la terneza
alzo la negra cabeza
y le dijo sollozando:
Vete, pues, noble cacique,
vete, valiente senor,
pues no quiero que mi amor
a tu patria perjudique;
mas deja que te suplique;
como humilde esclava ahora,
que si en vencer no demora
tu valor, aca te vuelvas,
porque en estas verdes selvas,
Guarina vive y te adora.
Si volvere, indiana mia!
El indio le contesto,
y otro beso le imprimio
con dulce melancolia.
De ella al punto se desvia,
marcha en busca de su grey,
y cedro, palma y jaguey
repiten en la colina,
el triste adios de Guarina
el dulce beso de Hatuey.
In una società fortemente stratificata e regolata da una precisa gerarchia sociale come era quella dei Taíno, la carica di cacique era ereditaria, con trasmissione per via matrilineare: l'erede era cioè il figlio maggiore della sorella del cacique in carica, anche se in alcuni casi la trasmissione avveniva direttamente da padre in figlio. Il cacique, consigliato dai nitaínos (i nobili) e dal behique (lo sciamano), decideva la politica generale del suo dominio ed esercitava la giustizia. I suoi poteri non si fermavano al solo aspetto politico del comando, egli era anche il punto di riferimento della vita religiosa del gruppo; ogni atto del cacique era dunque al tempo stesso politico e religioso. A lui erano riconosciuti attributi semi-divini e i suoi compiti erano anche quelli di controllare i raccolti e organizzare la distribuzione di cibo e beni. Organizzava gli areytos (le feste) e decideva quando andare in guerra. Considerato l'intermediario tra la popolazione e il mondo soprannaturale, il cacique si distingueva, così come i nitaínos, per l'abbigliamento decisamente più ricco rispetto a quello della gente comune (tessuti finemente lavorati, ornamenti plumarî, collane, pettorali, cinture e monili e amuleti in guanin, una lega di oro, rame e argento). Suo oggetto peculiare, oltre allo scettro e al pugnale in pietra, era il duho, il sedile ligneo cerimoniale intimamente connesso al suo prestigio e al suo potere. I caciques possedevano inoltre gli zemi (immagini di divinità) più potenti e sovrintendevano alla loro adorazione. Attraverso la poligamia di cui godeva venivano a formarsi alleanze politiche con gli altri cacicazgos (caciccati).
Nel suo Diario di Bordo Cristoforo Colombo scriveva:
Mi sembrò gente povera di tutto. Essi erano totalmente nudi, così come la madre li partorì, e anche le donne... Ben fatti, con bellissimi corpi e bei visi. I capelli spessi quasi come setole della coda del cavallo, e corti. Portavano i capelli all'altezza dei sopraccigli tranne alcuni che li portavano lunghi, visto che non li tagliavano mai. Si tingevano di scuro e loro sono del colore dei canarini, né neri, né bianchi... Non portano armi né le conoscono, visto che mostrando loro le spade le prendevano dalla parte del filo della lama, e ignorantemente si tagliavano. Non hanno alcun ferro. Le loro armi sono dei bastoni senza ferro, e alcune di queste portano alla fine un dente di pesce, e altre portano altre cose. Sono tutti alti e dai buoni gesti, ben fatti. Io ne ho visto qualcuno che aveva segni di ferite sul corpo, e a gesti ho chiesto cosa fossero, e loro mi spiegarono che lì arrivava gente da altre isole vicine e visto che volevano sconfiggerli loro si difendevano. E allora io credetti, e credo, che qui arriva gente dalla terra ferma per catturarli. Loro dovevano sicuramente essere dei buoni servi e dal buon ingegno, infatti notai che presto sapevano tutto quello che era stato detto loro. Io credo che facilmente diventeranno buoni cristiani, visto che mi sembra che non appartengano a nessuna setta.
Sottomessi e vittime delle brutalità della colonizzazione spagnola, della fame e delle malattie importate dagli Europei (vaiolo, morbillo, scarlattina, ecc.), maltrattati e sfruttati nelle encomiendas, i Taíno subirono uno choc iniziale che si manifestò in un rapido e brusco calo demografico. Se all'arrivo degli Europei l'isola di Hispaniola contava oltre un milione di individui, trenta anni dopo essi erano praticamente estinti, sopraffatti dalla "catastrofe" arrivata dal mare. I Taíno preferirono addirittura l'estinzione piuttosto che essere totalmente sottomessi. Affrettarono quindi il loro stesso destino, adottando il suicidio di massa e l'aborto come armi atte a fronteggiare e a riscattare un presente privo di riferimenti culturali conosciuti e di margini di azione che potessero permettere di comprendere e intervenire sulla realtà. Le donne dapprima si rifiutarono di generare figli e quindi, come gli uomini, finirono per impiccarsi agli alberi, non potendo sopravvivere, per il loro scarso numero e il basso sviluppo tecnologico, alla barbarie importata dall'Europa da conquistatori e colonizzatori.
Malgrado la loro precoce scomparsa, i Taíno sono ben presenti nella memoria storica cubana, in quanto viene riconosciuta loro, alla stessa stregua degli altri abitanti indigeni dell'isola, i Siboney e i Guanahatabeys (o Guanahacabibes), un'eredità culturale e un preciso ruolo nel processo di transculturazione del paese. Va ricordato, per esempio, che le figure (immagini e statuine) degli indiani e delle loro divinità hanno un loro spazio negli altari degli orichas della Santería e una iconografia piuttosto diffusa e manifesta in tutto il Paese.
Nella zona che va da Punta Maisí nella provincia di Guantánamo, sulla costa meridionale, e a Puerto Gíbara, sulla costa settentrionale dell'isola cubana — dove numerosi sono i caseríos (nuclei familiari di discendenza indiana) —, ma soprattutto a Caridad de los Indios, nei pressi del Municipio di Yateras — dove assai vasta è la comunità costituita da discendenti indocubani ben riconoscibili grazie ai caratteri somatici —, è possibile raccogliere ancora oggi testimonianze di letteratura orale indigena (miti, canti e leggende).
Gli indiani lasciarono altre impronte sull'isola: il loro bohío, la piccola capanna fatta di foglie di palma e di legno, si conservò come la caratteristica abitazione del contadino cubano; lasciarono un contributo anche in alcuni vocaboli come batey, definizione del gruppo di edifici attorno ad uno zuccherificio; huracan, definizione delle vorticose trombe di vento che spesso devastavano i raccolti cubani; hamaca, l'amaca, il letto più pratico per i tropici; canoa, l'imbarcazione più pratica, e guajiro, l'agricoltore dai poveri mezzi di sussistenza, così come era la maggior parte di essi, che coltivava yucca, mais, avocado e patate dolci, tutti vegetali indigeni cubani. Lasciarono un contributo anche nella toponomastica, negli stessi nomi di "Cuba" ed "Havana" (da "savannah", ossia pianura priva di alberi); e nell'arte di coltivare il tabacco (anche tabaco era un vocabolo indiano).