Cuba

Una identità in movimento


Radici nere in America Latina: Cuba

Daniela Sangalli


La popolazione nera in America Latina raggiunge il 7% circa, secondo gli ultimi dati elaborati dalla CEPAL (la Commissione delle Nazioni Unite per l'America Latina) e presenta una distribuzione diversificata secondo le zone geografiche. In America Centrale non raggiunge l'1%, nel Sud America il 6,6% (Brasile e Venezuela rispettivamente l'11 e il 19%), mentre nelle Antille la presenza africana è molto superiore e in alcuni paesi costituisce la stragrande maggioranza: ad Haiti il 95% e in Giamaica il 79%. A Cuba la popolazione nera raggiunge il 12% e quella mulatta il 51%.

C'è una ragione storica che giustifica questa diversa distribuzione geografica che risale all'epoca della colonizzazione e alle attività economiche per le quali era utilizzata la manodopera nera: la coltivazione della canna da zucchero.

L'Africa ha dato le sue forze migliori, giovani e sane, all'America Latina. Si calcola che durante la "tratta dei neri" oltre 12 milioni di africani giunsero vivi sulle coste del Nuovo Continente, senza contare le migliaia di uomini e donne che morivano ammassati nelle stive delle navi negriere, privando l'Africa di intere generazioni, gettando le basi della povertà che ancora oggi affligge drammaticamente il continente. Neppure l'America Latina si arricchì con la tratta. Le regioni dove fu più alta la concentrazione di schiavi neri che lavoravano nelle immense piantagioni di canna da zucchero (il Nord Est del Brasile, Haiti, Barbados) sono ora tra le più povere del continente.

Lo zucchero, chiamato "oro bianco", era un articolo molto ambìto dagli europei: si vendeva nelle farmacie e era pesato in grammi. Per questo si moltiplicavano le piantagioni di canna da zucchero e i viaggi delle navi negriere. Il lavoro degli africani servì a creare la ricchezza della Spagna, del Portogallo, dell'Olanda prima, e degli Stati Uniti poi.

La schiavitù è parte della storia sociale ed economica di alcuni Paesi, e Cuba è uno di questi.


Il passato schiavista

I primi africani giunsero a Cuba con le navi spagnole, anche se c'è chi sostiene che vi fosse una presenza nera (forse gli Olmechi del Messico) anche prima dello sbarco di Colombo.

Gli arrivi di massa di africani cominciarono verso la fine del Settecento, quando fu autorizzato il commercio degli schiavi. L'economia cubana, basata sulla coltivazione della canna da zucchero, aveva bisogno di braccia forti e di un continuo ricambio. In poco più di tre secoli, dal 1521 alla fine del 1800, oltre un milione di neri furono portati sull'isola. La popolazione locale infatti era scarsa e non lavorava volentieri la terra.

Nel 1810 il numero di neri (schiavi e liberi) superava quello dei bianchi. Alexander Von Humboldt, che ai primi dell'Ottocento fece due viaggi a Cuba, descrisse il paese come "l'isola dello zucchero e degli schiavi". Cuba fu l'ultima colonia spagnola ad abolire la schiavitù nell'anno 1880.

A Cuba gli schiavi si dividevano in vari gruppi: quelli che lavoravano nelle piantagioni di zucchero e nelle raffinerie, i domestici nelle case dei bianchi, gli schiavi urbani, artigiani che dovevano consegnare parte dei loro guadagni al padrone. Il sistema schiavista in vigore a Cuba non era dei più rigorosi, soprattutto se confrontato con quello francese ad Haiti. A Cuba i neri potevano mantenere le loro usanze, la loro lingua e religione, potevano liberamente sposarsi, e addirittura "auto riscattarsi", pagando al padrone una parte dei guadagni ottenuti con le loro attività, comprandosi la libertà a rate.

Si trattava pur sempre di schiavitù e quindi non era raro che gli schiavi tentassero la fuga. I fuggitivi, chiamati cimarrones, si rifugiavano nelle zone più isolate sulle montagne e si organizzavano in piccole comunità, palenques, su base democratica. La loro ribellione è considerata anche come una forma di resistenza culturale. Se venivano catturati, per i cimarrones c'era la tortura e spesso la rescissione dei tendini del ginocchio, per evitare altre fughe...

Con l'emancipazione, i neri lasciarono le piantagioni e si stabilirono nei quartieri poveri delle città, dove si sono conservati pressoché intatti il folklore e le tradizioni africane.


L'influenza dei neri nelle società e nella cultura cubana

Un centinaio di tribù africane sono rappresentate a Cuba, tra le più numerose i Lucumí o Yoruba, provenienti dalla Nigeria e dal Benin.

Poi i Congo, i Carabalí, e le migliaia di schiavi provenienti da Haiti. Le caratteristiche africane influiscono molto sul popolo dell'isola, che è socievole, spontaneo, emotivo, estroverso, ha una grande sensibilità per il ritmo musicale e passione per la danza e per le feste.

La famiglia afrocubana presentava e presenta caratteristiche di grande instabilità, dovuta alla necessità di spostarsi in città per cercare lavoro nel periodo che intercorre tra due raccolti di canna da zucchero. La famiglia nera è sempre stata fondata sulla donna, la madre o la nonna, che si occupa della casa e dell'educazione dei figli, numerosi e spesso nati da padri diversi.

Le radici africane sono molto vive in due campi particolari, la musica, in cui gioca un ruolo fondamentale il tamburo (considerato il messaggero degli dei) e la religione. La maggior parte della popolazione, benché si proclami cattolica, appartiene a sette di origine africana, e il sincretismo religioso è forse la caratteristica più evidente della religiosità afro.

La patrona di Cuba è la Virgen del Cobre, una Madonna "bianca", che gli Yoruba identificano con Ochun, dea dell'amore libero, mentre Oggun, il dio delle montagne e dei minerali, è identificato con San Pietro.

L'influenza africana si fa sentire anche nella lingua: lo spagnolo parlato a Cuba conserva ancora tante parole di origine africana (mayombero, stregone; mambí, cattivo; chébere, bello).


La rivoluzione cubana e gli Afro

Prima della Rivoluzione vi era un clima di discriminazione molto forte, i neri erano esclusi dalle cariche governative e non potevano esercitare le libere professioni.

I bambini neri non erano ammessi nelle scuole private. L'unico ruolo riservato ai neri era quello folkloristico, suonatori e ballerini, ed erano famose le "mulatas de cabaret", le mulatte cubane, considerate tra le più belle donne al mondo, che si esibivano nei locali per i turisti.

La tendenza generale era quella di "sbiancare" la popolazione: chiunque aveva un antenato bianco, anche molto lontano nel tempo, si dichiarava bianco, perché essere nero non era conveniente. Le cose cambiarono con la Rivoluzione: cessarono le discriminazioni razziali e furono autorizzate anche le cerimonie religiose dei neri. Nel 1960 fu coniato il termine "afro-cubano", che indicava la fusione tra la cultura nera e quella europea, una sintesi feconda che diede i suoi frutti sia nella musica che nella poesia.


Il cinema cubano: la tematica schiavista

Il primo film cubano risale al 1906, si intitolava "El Parque de Palatino" di Enrique Díaz Quesada, ed era muto. Il primo sonoro risale invece al 1932, "Maracas y Bongó": da allora la musica entra prepotentemente nel cinema e ne diviene il tema centrale per decenni. La prima stella del cinema cubano è la mulatta Rita Montaner, cantante lirica e attrice di musical.

Nei primi anni della storia cinematografica di Cuba, uno dei temi più affrontati era quello della schiavitù.

I neri non erano mai protagonisti dei film, nei quali comparivano sempre come ballerini e cantanti, tagliatori di canna e schiavi. Le figure nere femminili erano quasi inesistenti, mentre le mulatte erano fortemente stereotipate: schiave violentate, domestiche, prostitute.

Uno dei lavori più belli sulla tematica schiavista è la trilogia di Serge Giral: "Rancheador" (1976), "Maluala" (1979) e "Plácido" (1986). Maluala è il nome del principale palenque della zona orientale di Cuba, una comunità fondata dai cimarrones sfuggiti alla schiavitù. Di fronte all'impossibilità di un'azione militare, gli Spagnoli decidono di seminare la divisione tra i rivoltosi, mettendo due leader uno contro l'altro. Ma la comunità capisce l'inganno e si organizza per sconfiggere l'esercito spagnolo. Maluala e i suoi abitanti hanno vinto e continueranno ad essere liberi.

Un altro esempio di film sulla schiavitù è "La última cena", un classico del cinema cubano, realizzato nel 1976 da Tomás Gutiérrez Alea, ispirato a un fatto reale, raccontato in un libro dello storico Moreno Fraginals. La sera del Giovedì Santo, il proprietario di un grande zuccherificio invita dodici suoi schiavi a cena con lui, e, riproducendo ogni gesto di Gesù, lava loro i piedi. Ma le buone intenzioni durano una sola sera: la mattina seguente non mantiene la promessa di risparmiare agli schiavi il lavoro della piantagione nel giorno della passione e morte del Signore. E scoppia così la rivolta.

La tematica schiavista è sempre considerata dal punto di vista storico, non si approfondiscono le sue conseguenze nella vita quotidiana dei cubani.

Un cambiamento di tematica, che rappresenta un'apertura ai neri nel cinema, si deve al regista Octavio Cortázar, che per la prima volta nella storia affidò a un attore nero, Tito Junco, il ruolo di protagonista nel film "Guardafronteras". Era il 1980, ed era un'eccezione.

Secondo Cortázar

"... il nero deve essere presente nell'arte cubana, perché in caso contrario, si produce un'arte parziale. Credo che sia in particolare nel cinema e nella televisione che questa immagine parziale del cubano è maggiormente evidente".

Lo stesso esprime Tito Junco:

"Il progresso sociale degli afro-cubani, dei neri a Cuba, risultato e prodotto della Rivoluzione, non si rispecchia assolutamente nei mezzi di comunicazione. Gli afro-cubani avvocati, medici, insomma, la gente qualificata, non viene rappresentata dalle reti di comunicazione".


La tematica sociale

I problemi quotidiani della popolazione erano assenti dallo schermo, almeno fino alla Rivoluzione.

Nel 1960 si costituì l'Istituto Cubano per l'Arte e l'Industria Cinematografica (ICAIC), che ha avuto un ruolo determinante nella nascita del cinema d'indagine sociale. Tutti i migliori cineasti hanno studiato e lavorato nell'ICAIC: Octavio Cortázar, Pastor Vega, Tomás Gutiérrez Alea, Rigoberto López.

Precursore dei film di denuncia sociale è il documentario "Now!", di Santiago Alvarez realizzato nel 1965. Il lavoro, destinato a creare un nuovo stile di fare documentario a Cuba, presenta il tema della segregazione dei neri negli Stati Uniti ed esprime tutta la collera del regista che, in un viaggio negli USA negli anni '30, si scontrò con una realtà inimmaginabile: la discriminazione razziale in Nord America.

Tra gli altri film che con coraggio affrontano temi sociali, vi è "De cierta maniera" della regista nera Sara Gómez, realizzato nel 1974.

La produzione, a metà strada tra film e documentario, racconta la storia di Yolanda, una maestra bianca che insegna nella scuola di un quartiere povero e si innamora di Mario, un giovane mulatto.

La loro relazione si scontra con i problemi della società cubana emarginata, che la regista descrive ed approfondisce offrendo una visione nuova del maschilismo, caratteristico dell'America Latina, e una panoramica sulle religioni di origine africana.

Sara Gómez morì giovane, senza vedere la conclusione del suo film, e il cinema cubano perse una delle più promettenti figure nel campo dell'indagine sociale.

Una fotografia della realtà della periferia dell'Avana degli anni '50 emerge dal film "Maria Antonia" di Serge Giral, realizzato nel 1990. La protagonista è una donna che, per amore, si avvia verso un tragico destino e non riesce a salvarsi neppure mediante le pratiche della religione yoruba, che guidano la vita del barrio emarginato nel quale vive.

Uno dei primi registi a svelare i segreti del rituale religioso dei cubani neri fu Rigoberto López nel 1989 con il cortometraggio "El mensajero de los dioses" ("Il messaggero degli dei"), nel quale andò all'essenza dell'identità afrocubana, e presentò il valore socioculturale del suono del tamburo alle divinità yoruba Yemayá e Changó.


Il cinema nero al femminile

Sulle orme di Rita Montaner, Daysi Granados, chiamata la "Dama del cinema cubano", ha rappresentato per decenni sulla scena la "cubanità", con tutte le sue caratteristiche, diventando famosa con il film "Retrato de Teresa" di Pastor Vega.

Il film, girato nel 1979, presenta i cambiamenti sociali avvenuti dopo la Rivoluzione, con gli occhi di una donna: Teresa, delegata sindacale, accetta anche l'incarico di promotrice culturale. Ma presto si scontra con il marito, secondo il quale queste nuove responsabilità le sottraggono tempo per la cura della casa.

Un'altra famosa regista nera cubana, che ha raccolto l'eredità della Gómez, è Gloria Rolando Casamayor, che ha lavorato con i principali registi cubani, Santiago Alvarez e Rigoberto López.

Dedicatasi in particolare alla realizzazione di documentari, Gloria Rolando si sente molto legata alle sue radici africane:

"La mia è una famiglia che segue in vari modi la tradizione cubana ma anche la tradizione africana, attraverso la religione, la musica... Queste cose stanno dentro di noi. Vivo in un quartiere popolare dove si possono sentire le percussioni, vedere i vestiti delle donne e altre cose che appartengono alle tradizioni africane. Fa parte del mio ambiente, della mia cultura, della mia vita".

Ha fondato un gruppo di realizzatori di video documentari, chiamato "Immagini dei Caraibi", che cercano di esplorare le radici di Cuba, che sono molto complesse, composte da Spagnoli, neri e meticci.

Tra le sue opere principali si devono ricordare: "Oggun: l'eterno presente", realizzato nel 1991, che racconta con poesia la storia del cantante Lázaro Ross, un griot africano, e allo stesso tempo esplora l'universo artistico e religioso afrocubano, il suo mondo magico e i principi della filosofia yoruba.

In "Los ojos del arcoiris" ("Gli occhi dell'arcobaleno"), un documentario del 1997, la regista presenta la lotta di una donna contemporanea e la figura di Oyá, la divinità rappresentata dall'arcobaleno, introducendo anche aspetti della vita politica e le tradizioni della religione yoruba.





Si ringrazia il Direttore di "Africa", Rivista dei Padri Bianchi, Padre Claudio Zuccala, per aver concesso l'autorizzazione alla pubblicazione dell'articolo.



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Webmaster: Carlo NobiliAntropologo americanista, Roma, Italia

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