Catia Funari — Stefania Russo
C.F.: Il caso dei Cinque cubani detenuti nelle carceri degli Stati Uniti non riguarda esclusivamente i governi cubano e nordamericano. I Cinque oggi si trovano in prigione per voler difendere i principi di libertà, giustizia e sovranità – valori universali, sacri per tutti i paesi del mondo. Non crede che l'Europa dovrebbe riflette sul fatto che ancora oggi questi principi sono messi in discussione e che per difenderli a volte bisogna patire la prigione come stanno facendo i Cinque?
I.R.: Il caso dei Cinque è semplicemente scandaloso per varie ragioni. Primo, perché da parte dei media europei è in atto un boicottaggio generale, né sui giornali, né alla radio, né in televisione si parla di questa storia. Effettivamente ci troviamo di fronte a un caso totalmente censurato. Secondo, perché stiamo vivendo una fase storica in cui tutti i giorni ci ripetono che la guerra principale è quella contro il terrorismo. Gli USA stanno insistendo sul fatto che bisogna fare la guerra al terrorismo, comunque e dovunque sia. Lo stesso Bush ha detto che chi aiuta il terrorismo, per esempio ospitandolo, è terrorista esattamente come colui che mette una bomba. Con queste parole il presidente degli Stati Uniti sta legittimando il lavoro dei Cinque, cioè cercare di individuare le organizzazioni che praticano il terrorismo. In realtà, tutto questo dimostra che per gli Stati Uniti e per moltissime altre persone esiste un terrorismo buono, che serve agli interessi degli Stati Uniti e uno cattivo, che attacca gli stessi interessi. E questo le persone di buona volontà non lo possono accettare: il terrorismo è male, sempre.
S.R.: E l'Europa dove sta?
I.R.: L'Europa è assente, bisogna dirlo. Riguardo al caso dei Cinque, l'Europa è schierata con gli Stati Uniti, e in particolare sulle problematiche cubane, l'Europa non vuole considerare la specificità del caso cubano, la specificità del terrorismo sponsorizzato dagli USA contro Cuba. È evidente che è sensibile solo al terrorismo, diciamo, islamico. Al terrorismo internazionale, come oggi viene chiamato questo fenomeno.
S.R.: Qual'è la differenza tra la politica nei confronti di Cuba del democraticissmo John Kennedy e quella dell'ultra conservatore, reazionario George W. Bush? In fondo è durante l'amministrazione Kennedy che, dal trionfo della rivoluzione, Cuba ha vissuto la sua fase più critica. E non mi riferisco alla crisi di ottobre, ma piuttosto al tentativo di invasione dell'Isola con lo sbarco nella Baia dei Porci.
I.R.: Qui stiamo parlando di storia. E la storia ci dice due cose: il presidente Kennedy quando lancia l'operazione "Playa Girón", sta lanciando un piano che non ha elaborato la sua amministrazione, ma quella precedente alla sua, l'amministrazione di Eisenhower. Evidentemente Kennedy, essendo un presidente insediatosi da poco, ancora non possiede l'autorità per dissuadere la realizzazione di quella operazione. Ma possiamo dire che ordina alle forze statunitensi presenti nelle acque circostanti la Baia, in particolare portaerei, di non partecipare allo sbarco. Inoltre oggi sappiamo con certezza che Kennedy voleva mandare un messaggio a Fidel Castro per stabilire un altro tipo di relazione con lui. Abbiamo molte testimonianze che lo dimostrano. Pertanto la posizione di Kennedy anche se quantitativamente sembra più importante, le stesse autorità cubane pensano che, dopo la crisi, con lui si sarebbero potuti stabilire altri tipi di rapporti.
S.R.: Che succederà a Posada Carriles? Se riuscirà a circolare di nuovo liberamente, l'attività terroristica contro Cuba si intensificherà?
I.R.: Credo che sarebbe molto difficile. Posada Carriles ormai è un terrorista in pensione. Ha ottant'anni, ha un cancro alla pelle. Non stiamo parlando di Posada Carriles come persona ma di ciò che rappresenta, cioè di un uomo che ha passato quasi cinquant'anni praticando il terrorismo contro Cuba con l'aiuto degli Stati Uniti e che questo fatto non è riconosciuto, con la complicità di molti paesi come Panama o Messico che ha dato a Posada Carriles il permesso di passare per poter raggiungere gli Stati Uniti. Ricordiamo che Posada Carriles non possiede la nazionalità nordamericana. E comunque io credo che gli USA lo proteggeranno, perché è un loro agente. Forse per gli Stati Uniti la cosa migliore sarebbe che Posada Carriles morisse. Pertanto è possibile che facciano in modo che questo accada.
S.R.: Zapatero da una parte ritira le truppe dall'Iraq, dichiarandosi giustamente contro l'occupazione, e dall'altro a Melilla, antica conquista, intensifica le guardie di frontiera spagnole che possono anche sparare contro i sub-sahariani che tentano di scavalcare il doppio filo spinato. Che ne pensa?
I.R.: Non c'è nessuna relazione tra una cosa e l'altra. Io non credo che il governo abbia dato l'ordine di sparare contro gli immigranti.
S.R.: Ma di rinforzare la guardia sì.
I.R.: Rinforzarla sì, che fa parte di una politica europea che naturalmente noi critichiamo. Il fatto di intensificare il controllo della baia, il fatto di respingere con questa violenza gli immigranti richiama un problema che va oltre Zapatero, perché Zapatero, allo stesso tempo, ha anche concesso permessi di soggiorno a più di 800 000 immigranti. E questa è la contraddizione che la destra rimprovera a Zapatero; cioè di concedere il permesso di soggiorno a 800 000 immigranti spingendo le persone ad entrare in Spagna, attraverso Melilla. Se non concedesse tutti questi permessi non ci sarebbero tutte queste persone che tentato di entrare a Melilla. Ma io credo che ci sia una certa coerenza nel governo di Zapatero, anche se nessuna persona che abbia buon senso può essere d'accordo con questa politica. D'altra parte non si possono aprire le frontiere. Nessun paese responsabile potrebbe aprirle.
S.R.: Aprire le frontiere è una cosa, sparare contro chi cerca di scavalcarle è ben altra. Io ho visto immagini in cui i soldati di Zapatero sparano contro gli immigranti.
I.R.: Non so se li ha visti sparare, forse li ha visti picchiare. Tra l'altro c'è in corso un dibattito su chi sia stato a sparare, se la parte marocchina o quella spagnola. In ogni caso non si può accusare Zapatero di aver ordinato di sparare, affermarlo sarebbe irresponsabile. Zapatero non ha ordinato di sparare. I militari che ha collocato lungo la baia non sono dotati di armi. La polizia è armata, non è la stessa cosa. E la polizia non ha ordini di sparare, ha l'ordine di respingere, altrimenti sarebbe stato un tremendo massacro. Ci sono stati dei morti, credo cinque o sei al massimo. Ma il problema sta nella politica di sicurezza che si sta mantenendo. Una politica che va oltre la politica del governo francese, spagnolo o italiano. Qual'è la politica dell'Unione Europea nei confronti dell'Africa e dell'immigrazione? Questa politica non è chiara, perché i vari governi non seguono la stessa politica. Bisogna prima di tutto lanciare una massiccia campagna di aiuto all'Africa, che parli del piano Marshall per l'Africa, e metterla in atto. L'Africa non può rimanere così com'è. Se domani in Africa arriva la febbre aviaria che succederà, già in quel continente impera l'AIDS e ogni altro tipo di calamità. Qui in Italia state vivendo l'allarme aviaria e l'Italia è uno dei paesi più ricchi del mondo. Immaginatevi se l'aviaria arrivasse in Nigeria. Ovviamente il virus muterebbe arrivando in Africa e diventerebbe una calamità per il mondo intero. L'idea di abbandonare l'Africa, questo sì che è un crimine orribile. Tutto il resto sono solo delle conseguenze di questo crimine.
S.R.: Lei crede nella politica di Zapatero?
I.R.: La politica di Zapatero presenta due aspetti. Uno che riguarda la società. Io penso che la decisione di ritirare le truppe dall'Iraq sia una risposta ad una richiesta molto forte della società. La questione di concedere il permesso di soggiorno agli immigranti. La questione di rivedere lo statuto della Catalonia, o domani quello Basco. La questione del matrimonio omosessuale. La questione della restituzione dell'archivio alla Catalonia. Tutto questo mi sembra molto positivo. L'altro aspetto della politica di Zapatero riguarda invece la politica economica che è una politica neoliberale, identica a quella di tanti altri paesi e questo merita una riflessione sicuramente più critica.
Ignacio Ramonet è nato in Spagna nel 1943. Ha studiato semiologia e storia culturale alla Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Parigi). È attualmente professore di Teoria della Comunicazione all'Università Denis-Diderot di Parigi (Paris VII) e professore associato all'Università Carlos III di Madrid e all'Università di San Pietroburgo. È inoltre direttore del mensile francese Le Monde Diplomatique.