All'origine c'è stata una mescolanza. Cuba è un gran minestrone. Una mistura totale di razze, di costumi, di vivande, di idee. Un misto di carnagione chiara, occhi leggermente obliqui e capigliatura le cui onde ricordano i ricci degli africani. Benché le statistiche parlino di una popolazione a maggioranza bianca, di origine spagnola, la realtà è frutto di un ricco intreccio etnico e culturale. Però non sarà fino a dopo l'apparire e il consolidarsi dei sentimenti di identità, di appartenenza a una nazione, che la letteratura e le arti assumeranno l'amalgama come una delle caratteristiche della cultura cubana.
È più che noto che gli spagnoli hanno colonizzato Cuba. Il rigore del colonialismo praticamente ha eliminato gli abitanti originali dell'Isola: guanajatabeyes, siboneyes e taínos. Questo è stato il motivo dell'arrivo degli africani come forza lavoro schiava. Gli spagnoli erano già un popolo mischiato, come lo sono quasi tutti. E hanno continuato ad arrivare all'isola provenendo da tutte le regioni della penisola. Anche gli africani venivano da diverse zone del continente. Certo è che questi sono i due tronconi fondamentali del miscuglio razziale e culturale di Cuba. Ma in seguito, in immigrazioni successive, si sono aggiunti alla miscela francesi fuggiti alla rivoluzione di Haiti, braccianti asiatici, qualche inglese che venne a stabilirsi dopo la presa di La Habana, uno scienziato tedesco affascinato dalla natura e infine nordamericani interessati alla canna da zucchero, giornalieri haitiani e giamaicani, mercanti arabi, ebrei e perfino giapponesi.
Gli esperti collocano alla fine del XVIII secolo le prime manifestazioni di differenza tra i nati nell'Isola e i nati in Spagna. I primi vengono chiamati isolani, i secondi 'della penisola'. Nello "Specchio della Pazienza" (1608), considerata la prima opera letteraria prodotta a Cuba, compare il termine criollo (creolo), che dapprima definiva i figli degli africani nati a Cuba e in seguito si applicherà a tutti coloro che sono nati nell'isola, fino a dar luogo al termine cubano.
I primi a chiamare se stessi cubani sono i rappresentanti della classe arricchita con il lavoro degli schiavi, raccolti attorno alla "Società Economica degli Amici del Paese" e al "Giornale Quotidiano di La Habana". È chiaro, sono cubani bianchi e ricchi che cominciano a far conoscere i costumi dell'Isola in cronache, articoli, vignette di scene della strada, ritratti di personaggi popolari.
Manuel de Zequeira y Arango (1764-1846), riconosciuto come uno dei primi poeti cubani, sarà giustamente uno degli iniziatori di ciò che è stato catalogato come il genere di costume. Già nel 1840 viene pubblicato "Scene Quotidiane", una delle prime raccolte di articoli di costume scritti da Gaspar Betancourt Cisneros, El Lugareño (1803-1866).
In questa stessa corrente si inseriranno altri importanti scrittori, poeti, pensatori, tra i quali, a titolo di esempio, si possono citare Anselmo Suárez Romero (1818-1878), Julián del Casal (1863-1893), Antonio Bachiller y Morales (1812-1889) e lo scienziato Felipe Poey (1799-1891).
Il folclorismo è di particolare importanza nella fase dello scaturire delle idee sull'identità cubana in quanto diversa da quella spagnola, e va evolvendosi gradatamente fino ad arrivare quasi alla necessità di separarsi dalla Spagna; contestualmente, è nelle immagini di costume che cominciano a comparire i bruni e i mori come parte della peculiare realtà dell'isola. E questa tendenza sarà, in un certo modo, antecedente alla letteratura antischiavista e all'apparizione, in seguito, dell'opera massima della novellistica cubana del XIX secolo: "Cecilia Valdés" (1840-1882) di Cirilo Villaverde (1812-1849), una novella che sembra un caleidoscopio di tutto il XIX Secolo cubano, grande affresco di costumi, di modo di vita e di accettazione definitiva dell'amalgama cubano.
Prima dell'apparizione definitiva di "Cecilia Valdés" o "La Collina dell'Angelo" (1882) erano state pubblicate varie raccolte di articoli di costume. Villaverde stesso elogia quelli di José M. de Cárdenas y Rodríguez e quelli di Anselmo Suárez y Romero. Nel 1852 viene pubblicato "I cubani visti dai cubani", raccolta di tipi cubani. Questo album, indica José Antonio Portuondo, è illustrato da incisioni di José Robles su disegni di Victor Patricio de Landaluze. Il nome di questo spagnolo è un nome chiave nella rappresentazione dei costumi di Cuba. Portuondo dice che è stato forse il primo a scoprire la bellezza plastica dell'uomo di colore e soprattutto della donna di colore. Ci sarà però un secondo album illustrato da Landaluze, "Tipi e costumi dell'Isola di Cuba" (1881) e in generale Landaluze lascerà ai postumi, in modo superficiale ma definitivo, i prototipi di personaggi neri dell'epoca e la comparsa della proverbiale mulatta cubana, la meticcia che nel XX Secolo il pittore Carlos Enriquez porterà nelle sue tele come il colore della voluttà e alla quale il pittore Victor Manuel darà il rango di Gioconda nella sua "Gitana Tropicale".
Prima della versione definitiva di "Cecilia Valdés" o "La Collina dell'Angelo" (1882) era stato scritto "Francisco" (1838-1839), novella di Anselmo Suárez Romero, inserita nella tendenza della difesa del nero, come entità uguale al bianco, tendenza che raggiungerà i suoi spunti più lirici in "Sab" (1841) di Gertrudis Gómez de Avellaneda (1814-1873). Sono l'espressione della teoria del nero con l'anima bianca, benché in entrambe le novelle vengano descritte le sofferenze fisiche e morali degli schiavi. Era anche apparsa la novellina "El rancheador" (1856) di Pedro José Morrillos (1803-1881) che in tutta crudezza mostrava la psicologia di un cercatore di schiavi fuggiti, allo stato brado.
Le suddette opere, che Salvador Bueno inserisce nella prima narrativa antischiavista di Cuba, hanno - secondo lui - il merito di essere state composte al culmine del regime schiavista, quando la popolazione di schiavi e di liberti di origine africana superava in numero la popolazione bianca formata da spagnoli della penisola iberica e dai loro discendenti, e rifletteva il più incandescente problema sociale dell'epoca coloniale.
La letteratura antischiavista era sorta attorno a Domingo del Monte (1804-1853), vero animatore delle lettere cubane. Fu del Monte a incoraggiare il poeta schiavo Manzano a scrivere i suoi "Appunti Autobiografici", e questi avrebbero ispirato "Francisco", di Suárez Romero, e "Fátima e Rosalía" di Félix Tanco, colombiano radicato a Cuba, di idee tanto avanti per l'epoca da avvertire che l'influsso degli schiavi a Cuba non si manifestava soltanto nei costumi, nelle ricchezze e nelle facoltà intellettive, bensì anche nella lingua, nelle danze e nella musica.
Appunto attraverso quest'epoca uno degli illustri membri della cerchia di Domingo del Monte, il poeta e drammaturgo José Jacinto Milanés (1814-1863) aveva detto nettamente che il nero era il fondamento della nostra migliore poesia e il poeta mulatto Gabriel de la Concepción Valdés (Plácido) (1809-1844) era noto per le sue composizioni. Il meglio del pensiero liberale borghese creolo riconosceva per ragioni economiche, e per altre più sublimi, quanto proclamato secoli addietro da Seneca: 'tutti noi uomini siamo membri di uno stesso corpo, la natura ci ha apparentato generandoci tutti con gli stessi materiali e con gli stessi destini', però nella società schiavista del XIX Secolo cubano, i bianchi illustri mantenevano lo sguardo sulle impronte intellettuali dell'Europa e i neri scrivevano come i bianchi per poter essere considerati.
Quando Cirilo Villaverde pubblica la sua definitiva "Cecilia Valdés", nel 1882, in esilio negli Stati Uniti, è già trascorsa la Guerra di Indipendenza proclamata nel 1868 da Carlos Manuel de Céspedes, Padre della Patria cubana, che aveva chiamato i suoi schiavi della piantagione 'La Demajagua' a battersi per la libertà di Cuba come uomini liberi. Questa versione ampliata di quel racconto pubblicato 40 anni prima, la sua visione della nazione emergente, è più completa e si rimette per questo, con maggiore profondità, a descrivere il complesso della società coloniale. Ciò che era nato come un racconto di costume si trasforma in un murale storico di grande ricchezza, nel quale il popolo cubano appare già riflesso con i colori conferitigli dalla mescolanza.
Questo è il grande merito della novella "Cecilia Valdés", ossia che nel murale storico presentato compaiono, per la prima volta nella letteratura di Cuba, i neri, i bruni e i mulatti come esseri pensanti e che soffrono e, nel corso della novella, viene offerta la trama del miscuglio etnico e culturale. Nessun'altra opera letteraria del XIX Secolo raggiunge questa statura di documento storico, al punto da essere definita dal filosofo Enrique José Varona storia sociale di Cuba.
Un'occhiata sul fenomeno del miscuglio culturale a Cuba fa capire che questo è derivato originariamente da due contrasti fondamentali: quello dei cubani contro il colonialismo spagnolo e quello degli schiavi contro gli schiavisti. José Martí (1853-1895), la figura eccelsa della cultura cubana del XIX Secolo, organizzatore della guerra necessaria contro il colonialismo, grande poeta, profondo intellettuale, intravede i pericoli che possono provenire da questi contrasti per la repubblica che vuole fondare, con tutti e per il bene di tutti, dove la prima legge sia il culto della piena dignità dell'uomo, predicando da subito che non esiste l'odio razziale, perché non ci sono razze. Tutto ciò che divide gli uomini, proclama Martí, tutto ciò che distingue, apparta o imprigiona, è un peccato contro l'umanità.
Martí, figlio di uno spagnolo, cubano per convinzione, comprende con la genialità e la lungimiranza, i fattori distinti che si coniugano nella nascita della nazione cubana e stabilisce molto chiaramente nel suo 'Programma per l'indipendenza di Cuba' e per la fondazione della repubblica che "la politica è il modo di governare, nella concordia della giustizia per il benessere complessivo, gli elementi diversi" e chiama neri e bianchi, cubani e spagnoli di buona volontà, alla pace futura, alla collaborazione di tutti per il bene comune.
Dopo dieci anni di guerra, che non hanno portato all'indipendenza, l'unità si profila come sostegno indispensabile della nazione e, come sappiamo, l'unità è sempre mescolanza, in quanto riunione armonica di diversi.
È ancora Martí che, con maggiore chiarezza, riflette sulla latinoamericanità dell'isola e che meglio definisce la sua universalità. "La patria è l'umanità", dirà nella magnifica sintesi. Martí, lottatore infaticabile per l'indipendenza di Cuba, organizzatore della guerra del 1895, riassume nella sua copiosa opera saggistica le basi della nazione cubana, riconoscendo gli apporti delle distinte fonti culturali da cui si nutre; avverte i pericoli futuri, mette in guardia sulla paura del nero, svela le ambizioni del nascente impero nordamericano e, con grande obbiettività, indica difetti e virtù della nazione vicina e stabilisce il compromesso storico di solidarietà con altri popoli, proponendo di inserire nella lotta del popolo cubano l'indipendenza di Porto Rico.
Il XIX Secolo cubano termina con la frustrazione di non aver ottenuto l'indipendenza a causa dell'intervento nordamericano. La letteratura prodotta negli ultimi decenni è marcata dagli aneliti di indipendenza e quella del nuovo secolo dalla frustrazione di non averla realizzata.
L'arte degli inizi del XX Secolo cubano ha già assunto la presenza del nero e adotterà lo spirito mulatto come prodotto della mescolanza dei due tronconi etnici culturali fondamentali: quello spagnolo e quello africano. Tale presa artistica non eviterà il razzismo della società schiavista recentemente abolita. Non poteva evitarlo, logicamente, quando la neocolonia, nella quale gli yankee hanno trasformano il paese, potenziava le diversità economiche, razziali e sessuali.
Durante il XIX Secolo cubano era stata riconosciuta l'importanza del nero come elemento attivo nella formazione della cultura nazionale. Non pochi meticci, mulatti, si erano distinti nelle arti musicali e letterarie o nell'esercizio intellettuale, come è il caso di Juan Gualberto Gómez, avvocato, giornalista, patriota e amico di José Martí.
Il XX Secolo sarà, tuttavia, quello della comparsa di una letteratura profusamente meticcia che ha il suo fulcro fondamentale nella poesia di Nicolás Guillén (1892-1989). La musica era stata, sino allora, quella della simbiosi più evidente tra africano e spagnolo con la nascita del son rusticano che mescola le sonorità della chitarra spagnola alla percussione africana. "Motivi del son", raccolta di poesie di Nicolás Guillén, pubblicata nell'aprile 1930, prende come modello ritmico la struttura del son nella forma, ricorrendo inizialmente a certe pennellate del folclore, degli avvenimenti e del tran-tran della vita quotidiana dei neri poveri, del loro tipico modo di parlare lo spagnolo e dei problemi che il razzismo allora esistente portava alla loro vita.
I poemi di "Motivi del son", mal valutati da alcuni, saranno l'inizio di un modo di far poesia. Poemi mulatti, li chiamò Guillén, spiegando a proposito: "fanno forse parte degli stessi elementi che entrano nella composizione etnica di Cuba, dove tutti siamo un poco mischiati (...) per ora lo spirito di Cuba è meticcio. E dallo spirito della pelle ci verrà il colore definitivo. Un giorno si dirà color cubano. Questi poemi vogliono anticipare quel giorno".
Guillén continuerà a lavorare ai suoi poemi mulatti. Apparirà nel 1931 "Sóngoro Cosongo", poi "West Indies, LTD"; più tardi "Canti per il soldato e sones per turisti", poi "Il son intero", raccolta di poemi che confermano l'adozione definitiva delle espressioni meticce nella forma e nel concetto.