I batá sono i tre tamburi sacri usati nelle cerimonie della santería cubana: una religione che ripropone, tramite una singolare fusione con i santi del cattolicesimo, le pratiche religiose e il sistema mitologico degli yoruba, un etnia di origine nigeriana diffusasi nell'isola in seguito allo schiavismo. Gli schiavi in quel periodo venivano raggruppati secondo la loro appartenenza etnica in gruppi detti cabildos; mantenere le diversità etniche di questi raggruppamenti era nell'interesse degli schiavisti, ai fini di scongiurare rivolte.
Premetto che i cabildos di questo gruppo etnico erano costituiti da ciò che gli schiavisti definivano grossolanamente "yoruba", nei quali erano immessi gruppi etnici di diversa provenienza secondo caratteristiche simili. Fu perciò all'interno dei cabildos che le tradizioni folkloriche e religiose degli yoruba poterono acquisire una forma che, se per un verso appare simile a quella originaria, dall'altro risulta sincretizzata con i contributi orali di etnie africane minori, alcune delle quali non sono state identificate. Ma il fenomeno più singolare fu quello prodotto dall'inevitabile confronto con il cattolicesimo, imposto dagli spagnoli come religione ufficiale. Non essendoci stata una vera e propria evangelizzazione, questi gruppi africani finirono col connotare le immagini dei santi cattolici di un valore magico e carismatico che ben si adattava alle loro concezioni. All'interno dei cabildos gli schiavi celebravano alcune festività cattoliche secondo una religiosità autoctona, caratterizzata da pratiche mitologiche di origine africana come i rituali di possessione. L'identificazione formale di alcuni santi del calendario cattolico con gli orichas (divinità) yoruba costituisce solo l'aspetto più evidente dell'esteso sincretismo religioso che ha formato la religiosità dei cubani, all'interno della quale è possibile riconoscere i contributi di molte pratiche religiose differenti (culto degli orichas, cattolicesimo, animismo, spiritismo, ecc.).
La religiosità cubana nasce dalle reiterate pratiche di sperimentazione del soprannaturale mediante oggetti e atteggiamenti concreti, simboli di esigenze quotidiane più che prodotti di un sistema teologico astratto. Le esigenze pratiche e quotidiane muovono l'interesse dei cubani verso la religione a tal punto che in genere i credenti sono adepti di più religioni contemporaneamente. Non vi è alcuna contraddizione nel loro atteggiamento poiché questo è tutto incentrato sul rispetto e sulla fede verso molte pratiche magiche, comportamenti quotidiani e credenze religiose, spesso appartenenti a religioni diverse. Pertanto è più conveniente parlare di religiosità o "religione popolare" (in quanto atteggiamento) dei cubani, piuttosto che di religione (in quanto sistema teorico-pratico coerente).
I batá sono tamburi bimembranofoni di tre grandezze diverse, a ognuna delle quali corrisponde un nome e un ruolo diverso nella pratica poliritmica. Il tamburo più piccolo si chiama Konkolo (o okonkolo, o anche omelé), che vuol dire "figlio" o "bambino" e il suo ruolo nella poliritmia è quello di marcare il tempo, suggerendo l'aria su cui gli altri due tamburi dialogano. Il tamburo medio si chiama Itotele (o omelé enkó), che vuol dire letteralmente "colui che segue sempre", riferendosi con ciò alla sua dipendenza melodica dal tamburo più grande. È il tamburo la cui membrana più grande (enú) risponde alle frasi che gli suggerisce il tamburo maggiore e la cui membrana più piccola (chachá) si incastra con le figure ritmiche dell'okonkolo.
Il tamburo più grande si chiama Iyá che (come vogliono molte tradizioni di origine africana) vuol dire "madre": è la madre di tutti i tamburi, ciò da cui ogni ritmo nasce e si sviluppa. Questo tamburo è il più grave e il suo ruolo musicale è quello di "chiamare" l'inizio e i cambi di ritmo, di improvvisare, di cominciare le frasi che l'Itotele prosegue, di fornire la forza e l'energia adatta a ogni particolare ritmo. Attorno alle membrane dell'Iyá viene legata una sonagliera metallica chiamata chaguoró che adempie ad alcune funzioni rituali come quella di invitare un oricha a rivelarsi nelle cerimonie.
Uno strumento che ha la stessa funzione è l'acheré, una sorta di maraca rituale che, sebbene possa essere suonata all'interno dell'orchestra di batá, ha una funzione indipendente da questa. Fernando Ortiz la paragona alla "campanella che il sagrestano cattolico fa tintinnare in certi momenti della messa": la sua funzione pertanto è separabile dalla pratica rituale dei batá. I ritmi sono spesso accompagnati da canti di culto per gli orichas; questi vengono cantati con una voce nasale o gutturale e le loro melodie sono spesso larghe e distese come alcuni canti di chiesa nostrani, in opposizione alle poliritmie complesse e vivaci che li accompagnano. Per avere un'idea più concreta di come siano questi incastri poliritmici, fornisco un esempio pratico: sulla marcia sempre uguale dell'okonkolo si inserisce il chacha dell'Itotele, creando il tipico incastro ritmico che spesso ricorre in alcune "marce mute" dei batá.
Su tale marcia si inserisce un dialogo melodico tra Iyá e Itotele (enú):
Se l'Iyá cambia la sua chiamata, l'Itotele in genere risponde in maniera diversa, per esempio:
Dato che questi due tamburi sono coinvolti nel dialogo e nell'incastro ritmico solo per ciò che riguarda certi colpi specifici, può capitare (specialmente per l'Iyá) che ogni tamburo possa poi costruire, rispettando la melodia fondamentale del dialogo, una sua marcia specifica e comoda. Da ciò nascono le innumerevoli variazioni e interpretazioni personali di un ritmo. Qui mi limito a riportare solo la trascrizione del modello(1) del ritmo (toque) generico "ñongo":
Una tale organizzazione poliritmica può permettere di sviluppare dialoghi melodici complessi all'interno di una griglia molto fitta di suoni acuti la cui velocità può essere anche molto elevata senza che i percussionisti si stanchino eccessivamente. Infatti i suonatori devono sostenere le varie fasi di ricerca e controllo della trance da parte del ballerino rituale mantenendo stabili i ritmi ed articolandoli in maniera vigile, in stretta dipendenza dal comportamento di quest'ultimo. Spetta in genere al cantante solista il compito di variare i ritmi, suggerendo i canti più adatti al momento, a cui sono associati determinati ritmi; altrimenti i cambi di ritmo sono lasciati al percussionista più esperto (detto olu-batá), che in genere suona l'Iyá.
Note
(1) Per modello di un ritmo mi riferisco a quello che S. Arom definisce come "... l'informazione strutturale comune a tutte le esecuzioni, […] sulla quale è fondata l'elaborazione di ciascun messaggio"; sta in: Magrini T. (a cura di), Universi Sonori, Einaudi, Torino, 2002, pp. 76-77).
Bibliografia
Ortiz F., Los tambores batá de los yorubas, Publicigraf, La Habana 1994, p. 7, pubblicato con questo titolo in Los instrumentos de la música afrocubana, La Habana, 1954, vol. IV, cap. XVI.