Conobbi Salvador González all'Avana, nell'ormai lontano 1992.
Eravamo in pieno Periodo Especial e soprattutto in piena estate, una delle estati più calde degli ultimi anni. Ricordo quel giorno come un pomeriggio particolarmente torrido a tal punto che nessun gringo sarebbe stato così temerario da sfidare l'asfalto rovente, se non per motivi strettamente necessari, ovviamente.
Io, infatti, in quel pomeriggio di agosto, stavo girovagando senza meta.
Mi pareva intollerabile l'idea di rinunciare, anche solo per poche ore, a quel groviglio di strani eventi nei quali, senza volere, uno straniero si trova coinvolto percorrendo le strade dell'Avana.
Avevo appena fatto un piccolo baratto con un bambino seduto sull'uscio di casa: l'acquisto di una camera d'aria di una bicicletta per un pennello che dovetti obbligatoriamente accettare. "Prendilo, amigo italiano, ti porterà fortuna".
Prendo il pennello, lo metto nel taschino della camicia e ricomincio a camminare a piccole soste cercando un po' d'ombra, un minimo di sollievo al riparo di un sole implacabile.
Alzo lo sguardo e difronte a me vedo un piccolo parco con una ceiba, albero fondamentale per le divinità e per i praticanti delle religioni afrocubane, è l'ideale per fermarsi un attimo.
Fu in quell'attimo di disperata ricerca di una tregua, nella lotta implacabile con un caldo infernale, che sentii un ritmo incalzante di claves, poi una tumbadora e via via un coro di voci ed infine un bongó solista. Istintivamente e senza esitazione mi diressi verso quei suoni.
Si trattava, indubbiamente, di una rumba brava, questa volta non in un solar, ma in una strada, una piccola via che appena svoltato l'angolo mi colpì non tanto per quei suoni che sentivo sempre più vicini, quanto piuttosto per quell'esplosione di forme e colori su alcune pareti che si affacciavano sulla strada.
Un'atmosfera quasi surreale nella quale sembrava che le divinità disegnate sui muri delle vecchie case fossero vive e si muovessero al ritmo di guaguancó.
Per un attimo ho pensato che si trattasse di un miraggio dovuto alla temperatura elevatissima delle due del pomeriggio, ma quando ho visto sbucare dal fondo della via i musicisti e poi da una porta sgangherata (fatta di assi di legno sconnessi) un volto sorridente che si dirigeva verso di me (come se ci conoscessimo da sempre) allora ho capito che forse era tutto vero.
"Come stai? Sono Salvador, anche tu sei un pittore?" — dice guardando il pennello nel mio taschino.
"Beh… no, veramente no, mi piacerebbe ma non credo che... "
A quel punto mi parve la cosa più naturale del mondo prendere il pennello e darglielo:
"Tieni Salvador, non so se ti servirà ma credo che sia più giusto che lo tenga tu".
"Grazie. Sai, non avrei osato chiedertelo, ma purtroppo anche le mie opere risentono del Periodo Especial ed è da un paio di giorni che stavo cercando proprio un pennello come questo".
A questo punto i ricordi si fanno un po' più vaghi.
Nel suo studio, insieme a tutti i musicisti, tra un rum e l'altro, i sigari, i colori dell'altare di Changó, la musica, i dipinti ovunque, non ho la benché minima idea di quanto tempo possa essere trascorso. So soltanto che quel giorno parlammo a lungo con Salvador.
Nonostante le enormi difficoltà economiche sognava di ridare vita al quartiere concependo il Callejón di Hamel come catalizzatore per far rinascere Cayo Hueso, il vecchio quartiere di Centro Habana irrimediabilmente consumato dal tempo e dalle ristrettezze economiche.
Per questa ragione, Salvador, compatibilmente con il materiale a sua disposizione, aveva iniziato, undici anni fa, a dipingere prima qualche piccolo spazio di un muro, poi un'intera parete ed infine tutta la via.
Adesso, a distanza di tempo, girovagando per il Callejón di Hamel si sente quasi esclusivamente parlare inglese, o comunque spesso una lingua straniera ed i volti sono quasi tutti quelli di gringos, come me. Ma quando silenziosamente cominciano ad apparire i primi percussionisti e poi i ballerini e poi la gente del barrio, allora chiunque sia presente capisce che da quel momento in poi si farà sul serio. Un viaggio ancestrale in un universo di suoni, colori e corpi che danzano armoniosamente in un quadro sorprendentemente unico persino nelle città dalle mille sorprese.
Oggi Salvador è un artista conosciuto e le sue opere sono disseminate tra Caracas e New York, tra San Juan ed il Messico, in Danimarca o nella piccola isola di Floro, in Norvegia, eppure lui è sempre lo stesso.
Dopo quasi 10 anni l'ho visto uscire sempre dalla stessa porta sgangherata, sempre con lo stesso sorriso solare e rivolgendosi a me ripartendo sempre dallo stesso discorso lasciato in sospeso nove anni prima. Come se fosse stato ieri.
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Video "A Cuban Legend. The Story of Salvador Gonzalez" (A Film by Bette Wanderman), dal Sito WEB A Cuban Legend. The Story of Salvador Gonzalez