Cuba

Una identità in movimento


L'anormalità di Cuba

Alessandra Riccio


Cuba non è un paese "normale" e questa anormalità infastidisce non dico il tradizionale e potente vicino del Nord America, cosa se non comprensibile, certamente palese e arcinota, ma la destra europea e italiana, il centro e perfino una buona parte della nostra sinistra e — purtroppo — dei movimenti nostrani ed europei. Che la destra e il centro non amino quella stravagante isola del Caribe, fieramente avversa al capitalismo e all'imperialismo, caparbiamente impegnata a costruire una società di eguali in uno stato sovrano, per nulla indifferente nei riguardi del Terzo Mondo e dei suoi problemi, sostenitrice della laicità[1] e di un governo pressoché onnipotente, non sorprende affatto; sarebbe sorprendente il contrario. Ma la diffidenza — e in molti casi — l'aperta ostilità della nostra sinistra comprese le sue frange movimentiste merita una riflessione attenta poiché se alla rivoluzione cubana si possono imputare molti errori, esagerazioni, marce indietro, ostinazioni, al suo attivo vanno anche iscritti una serie di meriti che, fino ad oggi, nessun altro paese del Terzo Mondo ha uguagliato. Lo ha fatto notare Eduardo Galeano:

"Durante più di quaranta anni questa rivoluzione, castigata, bloccata, calunniata, ha fatto molto meno di quello che voleva ma ha fatto molto più di quel che poteva. E continua. Continua a commettere la pericolosa follia di credere che gli esseri umani non siano condannati all'umiliazione".[2]

E colpisce anche il fatto che la diffidenza e l'ostilità della nostra sinistra non sia affatto condivisa né dai partiti né dai movimenti dell'America Latina e del Terzo Mondo.

Si pone, dunque, un problema rimosso, non detto, di supponenza europea, di convinzione inconfessata e inconfessabile di far parte di una civiltà superiore, detentrice dell'unico modello di democrazia possibile, quella civiltà dell'Occidente che ha visto nascere la democrazia sulle sponde dell'Egeo, l'ha perfezionata nei secoli e l'ha fatta acclimatare nel potente e moderno Nord America, la superpotenza del terzo millennio che si è assunta il compito, per bocca del suo attuale Presidente, George W. Bush, di imporre la libertà al mondo liberandolo dai tiranni ed esportando la democrazia.

Il 28 gennaio scorso abbiamo commemorato, nel Giorno della Memoria, l'arrivo dei liberatori nei campi di sterminio nazisti e ci è stato ricordato dall'unanime coro dei nostri politici che quell'orrore, quel genocidio, la liquidazione di avversari politici e di altri "anormali", furono perpetrati in nome della superiorità di un popolo sull'altro, ed ha riecheggiato il monito drammatico di Primo Levi:

"... è avvenuto, contro ogni previsione, è avvenuto in Europa, incredibilmente, quindi può avvenire di nuovo... ".

Contro ogni previsione... incredibilmente... quindi può avvenire di nuovo... Parole pesantissime sulle quali siamo obbligati a riflettere in quanto europei proprio per evitare che possa avvenire di nuovo; e in questi ultimi anni gli avvertimenti non mancano.

Infatti credo anche io che qualcosa sia irrimediabilmente cambiato in questi ultimi anni, ma non a datare dal funesto 11 settembre, quanto piuttosto dalla guerra/ballon d'essai nel miserabile e sfortunato Afganistan e ancor più con la seconda guerra in Irak che hanno travolto ogni legalità internazionale e hanno dato, e stanno dando ancora, prove di barbarie e di spregio verso gli esseri umani usando la fragile foglia di fico della esportazione della democrazia in nome della quale si tortura, si mettono taglie sulla testa dei ricercati, se ne esibiscono i cadaveri, si bombardano intere città, si distruggono vestigia di civiltà millenarie. La progressiva accettazione di questa sequela di orrori come prezzo da pagare per la nobile causa di omologare il mondo ai valori della civiltà occidentale, lo slittamento di senso per cui l'occupazione di un paese diventa una nobile crociata, il bombardamento di popolazioni civili, danno collaterale, l'imposizione di un governo, scuola di democrazia, rende "normale" il modello occidentale, cioè il nostro modello, del quale siamo i rappresentanti ma anche coloro che ne affermano la superiorità.

Grazie a questa sicurezza, nel corso dei secoli l'Europa monarchica[3] e cristiana ha ritenuto legittimo invadere e conquistare interi continenti ai quali ha imposto il nostro modello di governo, di economia, di religione la cui superiorità non è stata mai messa in discussione. La nostra civiltà ha ritenuto legittimo, non per un giorno ma per circa tre secoli, il commercio degli schiavi e il loro sistematico sfruttamento. Ritiene tuttora legittima l'espropriazione di materie prime e di risorse naturali nella convinzione che popolazioni sottosviluppate, inferiori, disorganizzate, incapaci, non meritino l'esclusiva di quelle ricchezze che non saprebbero mettere a frutto. È quindi legittimo appropriarsene e sfruttarle a qualunque costo, una pratica che non sembra arbitrario chiamare "neocolonialismo". Lo spiega bene Iris Marion Young:

"Riferirsi al colonialismo e all'imperialismo come [Habermas] fa apparire il colonialismo come uno sfortunato prodotto secondario dell'altrimenti universalistico e illuminato progetto con cui l'Europa intendeva radicare i principi dei diritti umani, del principio della legge, e di una maggiore produttività. Il colonialismo non è stato solo un processo di modernizzazione perverso, ma anche un sistema di schiavitù e di sfruttamento del lavoro. Cosa dimostra che la popolazione europea e gli stati europei abbiano accolto l'invito a rispondere delle proprie azioni con gesti di contrizione e riparazioni?"[4]

La domanda retorica posta dalla studiosa ci chiama in causa come popolazione e come stato e ci avverte che non possiamo dimenticare che conseguenze della colonizzazione sono stati lo sterminio dei popoli indigeni, i loro territori depredati, la negazione del meticciato, il rifiuto delle differenze da cui deriva la liquidazione di quelle diversità, nel senso più ampio della parola, ridotte a inferiorità.

Il poderoso processo di decolonizzazione che ha attraversato il mondo dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai primi anni 70, ha visto sfilare un corteo di straordinari e sfortunati pensatori e uomini d'azione dell'Africa, dell'Asia e perfino dell'America che — formalmente decolonizzata da circa un secolo — avvertiva di essere caduta nelle panie dell'ambiguo neocolonialismo e solidarizzava con le lotte per l'indipendenza che attraversavano mezzo mondo. Quelle lotte, purtroppo, vennero assorbite e giocate sullo scacchiere mondiale come non fossero altro che pedine di una partita che si giocava fra l'Est e l'Ovest e cioè fra l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti. La Guerra Fredda, nella quale l'Europa assumeva un ruolo di comprimaria, rispondeva alla logica della supremazia, alla legge del più forte, solo che i più forti erano due e il loro scontro garantiva perversamente uno status quo a spese dei paesi terzi ancora una volta usati e spogliati di ogni diritto.

Noi italiani dobbiamo alla sensibilità, all'ostinazione e all'intelligenza di Lelio Basso se nel 1976, ad Algeri, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli, i popoli non europei sono stati riconosciuti

"... come soggetti di storia, di storiografia, di cultura, da reintegrare nei loro diritti e da assumere dunque come fondatori, accanto alle tradizioni del Primo Mondo, di una cultura nuova ".[5]

Quella

Dichiarazione stabiliva il diritto all'autodeterminazione non solo contro le dominazioni coloniali ma anche in caso di occupazione straniera e di regimi razzisti, un diritto che consisteva

"... nella libera scelta del proprio statuto politico che non può essere imposto dall'esterno o dall'alto ma deve essere una libera scelta".[6]

Houtart aggiunge che la nozione di Diritto dei popoli implica il riconoscimento dei diritti socio-culturali all'interno di stati esistenti e definisce il concetto di liberazione come

"... lo sbarazzarsi di sfruttamenti esterni per ragioni economiche e politiche, ma anche di ogni sfruttamento interno da parte di classi sociali dominanti che impongono i loro interessi a popolazioni particolarmente vulnerabili e spesso in alleanza con gli interessi internazionali".

Nel commemorare i 25 anni della Fondazione Basso, Gianni Tognoni rilevava con amarezza che nel nostro diritto

"... i popoli non esistono come soggetto ma sono variabili dipendenti dal potere-ideologia-cultura dominanti: che sia l'evangelizzazione o il commercio o la democrazia formale o l'economia globale, che è diventata la teologia non-discutibile dello sviluppo. Per il diritto internazionale ufficiale tutti i popoli sono simbolicamente e concretamente come gli indios della Conquista: il signor Dinero decide se e quando riconoscere loro un'identità di umani".

Le conclusioni di Elmar Altvater ci riconducono al cuore del problema, alla nostra attualità. Dopo averci ricordato che la sicurezza umana è una pre-condizione e comprende sicurezza sociale, sicurezza dell'ambiente, sicurezza del cibo, sicurezza dell'abitazione e che per migliorare le condizioni dei diritti umani e della sicurezza umana non è conveniente lasciare la regolazione dell'interdipendenza né al mercato, come gli ideologi neo-liberali danno per scontato, né allo stato più potente del mondo, ammonisce:

"Il traguardo da raggiungere è comunque cambiato: si tratta di impegnarsi per il potenziamento della sicurezza umana e dello sviluppo umano molto più che per una spinta verso il socialismo e la democrazia".[7]

Dunque, un altro mondo dovrebbe essere possibile. Fidel Castro lo sostiene con convinzione:

"Le nazioni povere non dovrebbero essere incolpate di questa tragedia. Non hanno conquistato né saccheggiato interi continenti per secoli, non hanno istituito il colonialismo, o restaurato la schiavitù; e l'attuale imperialismo non lo hanno creato loro. In realtà ne sono le vittime. Per ciò la responsabilità per aiutare il loro sviluppo sta nelle mani di quegli stati che, per ovvie ragioni storiche, oggi godono i benefici di quelle atrocità. Le armi sempre più sofisticate accumulate negli arsenali dei più potenti e ricchi, come ho già detto, potranno uccidere gli analfabeti, i malati, i poveri e gli affamati, ma non potranno uccidere l'ignoranza, le malattie, la povertà e la fame. Una volta per tutte bisogno dare l'addio alle armi!. Bisogna fare qualcosa per salvare l'umanità! Un mondo migliore è possibile!"[8]

Cuba ci ha provato e ci prova; la sua rivoluzione è il prodotto di una storia di ribellioni di schiavi, di guerre di indipendenza, di lotte di operai e di contadini senza terra, di un proletariato multietnico ed è una rivoluzione che porta avanti un progetto di società autonoma, sovrana, alternativa che si è ispirata e si ispira ancora al socialismo ma al tempo stesso prosegue una tradizione propria di resistenza all'ingerenza degli Stati Uniti che hanno condizionato pesantemente perfino la conduzione della guerra di indipendenza (1898) e la Costituzione della Repubblica (1902). Da più di un secolo Cuba si mostra decisamente ostile alla filosofia imperiale e annessionista del vicino del Nord che si rifiuta di riconoscere che i cubani esigono un trattamento rispettoso e ugualitario ed hanno il diritto

"... di respirare a prescindere dalla volontà del presidente di turno alla Casa Bianca".[9]

La rivoluzione cubana, mentre ha resistito "contra viento y marea" al nemico americano, si è anche difesa abilmente dalle trappole del modello sovietico e non ha mai rinunciato ad un ruolo guida nel Terzo Mondo e in America Latina. Nel frattempo, portava avanti l'esperienza rivoluzionaria con grande creatività, una creatività che si è andata moltiplicando negli ultimi due decenni e che è ora di riconoscerle, anche per dare una spiegazione alla resistenza grazie alla quale l'isola, contro ogni previsione, ha smentito la sciocca teoria del domino che la voleva trascinata inevitabilmente dalla caduta degli altri paesi del socialismo reale, ha riattivato in maniera modesta ma sufficiente l'economia nazionale e ha proseguito in un originale e complesso cammino di cambiamenti e di sperimentazioni alla ricerca di alternative possibili

"... all'ordine sfruttatore, escludente, neocoloniale, depredatore che domina il nostro continente".[10]

Secondo Martínez Heredia, ed è un'analisi che condivido, la Cuba attuale è teatro di una transizione dopo i primi decenni di una storia rivoluzionaria che ha visto il coraggio della classe dirigente di liquidare l'apparato repressivo batistiano, di abbattere l'ordine vigente, di rompere i legami neocoloniali con gli Stati Uniti, di dar vita non ad una semplice riforma agraria ma ad una rivoluzione della vita, di condurre una campagna di alfabetizzazione che si è poi trasformata in educazione permanente, così come la campagna per la salute pubblica ha trasformato il concetto stesso di medicina non solo sancendo il diritto per tutti e quindi la gratuità, ma producendo medici, tecnici e tecnologie pensati per la medicina di massa e preventiva, rivolta alle necessità dei paesi poveri. Cuba è riuscita ad avanzare con creatività, a trasformare la società in una gigantesca scuola che è stata in grado di produrre un corpo intellettuale e di pensiero senza paragone nella sua area geografica e nel Terzo Mondo. Per questa ragione, è oggi in grado di scambiare medici e maestri contro petrolio, qualcosa che i commentatori ad uso trovano scandaloso senza spiegare per quale ragione debba avere maggior valore il petrolio che sgorga dalle viscere della terra, di un medico o di un maestro per formare i quali sono stati necessari anni e la cui importanza per il miglioramento delle società non mi pare discutibile. Continua Heredia:

"Il paese ha dato un grande esempio di ciò che è obbligatorio e possibile per un potere e una società in transizione socialista, ha moltiplicato i suoi sforzi quando ha avuto più personale qualificato e più risorse (...) Invece di abbandonare il progetto socialista per sopravvivere ha fatto della sopravvivenza la base di un ambizioso progetto socialista. (...) L'esistenza di Cuba socialista nega un'esigenza basica dell'ideologia dominante nel mondo attuale: che sia necessario rassegnarsi al dominio del capitalismo sull'esistenza quotidiana, l'organizzazione sociale e la vita dei paesi in tutto il mondo. Cuba è uno scandalo, e come tale provoca le reazioni più svariate".[11]

L'alternativa socialista cubana, basata sul generale consenso, checché ne dicano commentatori superficiali o nemici giurati, è viva e costituisce uno straordinario laboratorio sociale in cui l'immaginazione sfida la norma e sfida, soprattutto la fatalità che condanna un paese piccolo e povero alla sottomissione e all'obbedienza. In qualche modo, Cuba — senza altri aiuti se non quelli che lei stessa è in grado di darsi — si è sottratta proprio a quel fatalismo che ha prodotto una generale rimozione di qualsiasi idea socialista anche di quelle irrinunciabili, per accettare che "valori" siano solo quelli conservatori. Se ne lamentava Sandro Portelli all'indomani della seconda vittoria elettorale di Bush:

"Ma noi abbiamo delegato l'idea stessa di 'valori' al cattolicesimo e alla destra, tanto che non ci riesce di dirlo, né di affermare valori altri, che vengono dalla storia della sinistra e della democrazia: giustizia sociale, uguaglianza, pace, non violenza, apertura culturale, accoglienza, internazionalismo, ambientalismo, una laicità rispettosa del diritto di tutti i credenti e non credenti. Sono valori capaci di accendere speranze, passioni, mobilitazioni. Ma invano le cercheremmo nelle piattaforme del nostro centrosinistra, o in quella di Kerry".[12]

Io oso affermare che, al contrario, le troveremmo nell'apparato di idee che regge la società cubana, certo idee non tutte compiute, non tutte linearmente affermate, ma tutte presenti nell'orizzonte di attesa di quella società e molte vivamente presenti e reali.

Portelli continua:

"I limiti di sostenibilità del pianeta, le legittime richieste di vita migliore da parte della maggioranza dell'umanità, comportano un declino e una radicale revisione di uno stile di vita che dipende dall'accaparramento e dallo spreco di quote sproporzionate delle risorse limitate del mondo".

Questa semplice verità, nel caso di Cuba, offre la più esemplare delle chiavi di lettura della sua differenza, poiché la convinzione profonda di quanto sia indispensabile modificare radicalmente uno stile di vita in favore di un superiore principio di giustizia ed equità spiega il perché della resistenza di un intero paese, di una società che ha meritato uno struggente elogio di Santiago Alba a cui lascio la parola:

"Cuba ha capito molto bene la necessità di difendere simultaneamente l'universale (le stelle e le leggi), il generale (l'alimentazione, la salute, l'istruzione) e il collettivo (i mezzi di produzione e, per esempio, quelli del trasporto) nel bel mezzo di un uragano mondiale che ha privatizzato ormai non solo i beni generali e i beni collettivi, ma che sta privatizzando anche i colori, le forme e perfino l'eccellenza morale. (...) Meno cattiva, meno violenta, meno ingiusta; questo meno di Cuba non è semplicemente la sottrazione soddisfatta di una quota invariabile, rassegnata, di un massimo di cattiveria; è nella storia l'apertura qualitativa — che la chiudano o no — verso un altro mondo. Sottrarre e resistere non significa compiacersi di un'ingiustizia relativa: significa attraversare il capitalismo, alle condizioni — questo sì — decise da lui, con un filo di altro colore; incubare nell'ambiente più ostile che si possa immaginare, l'uovo di un'altra logica. Ce la faccia o no, la mettano in ginocchio o no, Cuba fa parte, allo stesso tempo, di questo e di un altro mondo; e quest'altro mondo lo possiamo difendere solo lì, su quella roccia, contro queste forze, fra queste pareti. Altrimenti, dove? Fuori dalla storia? Senza geografia né armi né memoria né libido né strategie?"[13]

La "anormalità" cubana, nel Terzo Millennio, consiste nell'ostinarsi a praticare un cammino di sovranità nazionale e di solidarietà fra i popoli, nel farsi carico delle necessità dei "dannati della terra" sviluppando un sistema sanitario in grado di fare prevenzione e di curare, un centro di ricerca che ha messo a punto vaccini per prevenire malattie che interessano soprattutto i paesi poveri, una prevenzione civile che l'ONU ha raccomandato ai paesi asiatici sconvolti dallo tsunami, un' agile e intelligente metodologia della didattica che consente di alfabetizzare le popolazioni d'America e d'Africa; in poche parole, nell'assicurare alcuni dei più importanti diritti dei popoli.

A poche miglia dalle coste cubane, ad Haiti, il più recente caso di neocolonialismo attivo, Stati Uniti, Spagna, Brasile sono presenti sul territorio con le loro forze armate per imporre l'ordine a quel paese selvaggio. Ma nei quartieri poveri, nelle campagne abbandonate, medici ed alfabetizzatori cubani portano un diverso messaggio di solidarietà e di collaborazione. E ciò è anormale?


    Note

      1. Rossana Rossanda, "il manifesto", 3.11.04, fa notare che la laicità "non è una filosofia, è — era — la persuasione che le regole dell'umana convivenza sono terrestri e devono basarsi sull'assioma che ogni essere umano è libero e deve avere ugualissimo potere di decisione su sé e sugli altri. Questo e non altro è 'l'égalité en droits'! Il principio dell'etica laica è anche il nucleo della democrazia non formale".

      2. Discorso di ringraziamento nel ricevere la laurea honoris causa dell'Università dell'Avana l'11.12.01.

      3. Un dato curioso: nella nostra moderna Europa esistono ancora molte monarchie, dalla Spagna all'Inghilterra, dall'Olanda al Belgio, dalla Svezia alla Norvegia, alla Danimarca.

      4. Iris Marion Young, Europa, provincia del mondo, "il manifesto", 7.8.03.

      5. Ettore Masina, in "Fondazione Lelio Basso", anno VII, n. 2, aprile/giugno 01.

      6. François Houtart, ivi.

      7. Elmar Altvater, ivi.

      8. Fidel Castro, Discorso di Monterrey, Messico, del 23.3.2002.

      9. Lisandro Otero, Transición hacia la nada, Organización editorial mexicana, 19.5.03.

      10. Fernando Martínez Heredia, El corrimiento hacia el rojo, La Habana, 2001, p. 11. Farò continuo riferimento alle analisi di questo brillante intellettuale.

      11. Ivi, pp. 31-33.

      12. Sandro Portelli, Interessi americani, il manifesto, 6.10.04.

      13. Santiago Alba, Cuba vive, Cuba mide, "Rebelion", 13.10.04.


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Webmaster: Carlo NobiliAntropologo americanista, Roma, Italia

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