Negli ultimi tempi ho letto diversi articoli riguardanti la convivenza razziale a Cuba. Si tratta di un tema particolarmente delicato per la vita sociale dell'isola, in cui convivono fisiologicamente una quantità enorme di sfumature di colore, di origini geografiche e culturali in una mezcla che da un lato costituisce il nucleo centrale dell'essere cubani e dall'altro non è libero dai pregiudizi e dagli ostacoli razziali.
Non è facile parlare di razzismo in un luogo in cui bianchi e negri (e tutte le sfumature intermedie) condividono lingua, stile di vita e, in buona parte, cultura. Eppure è il caso di farlo. Uno studio recente parla del recente aumento dei matrimoni interrazziali e del fatto che tuttora una buona fetta della popolazione cubana sembri considerarli come un fatto poco conveniente da entrambi i lati. Va detto che in genere i problemi esistono quando si parla dei due estremi razziali presenti nell'isola. I bianchi-bianchi (difficile trovarne ma esistono) diretti discendenti dei coloni di varia provenienza, geneticamente abituati alla gestione del potere, all'accesso ai gradi più elevati di istruzione e all'appartenenza agli strati privilegiati della società. E i negri-negri (più numerosi dei primi), geneticamente marchiati dall'esperienza della schiavitù, dall'attitudine alla sottomissione o alla ribellione, e socialmente emarginati nelle fasce più povere, poco istruite e di minore responsabilità nella vita pubblica del paese.
In mezzo c'è un arcobaleno di colori che costituisce la maggioranza della popolazione e all'interno della quale è francamente difficile fare distinzioni. Solo a Cuba esistono parole per distinguere un mulato da un jabao, un trigueño da un indio o da un achinado.
In ragione del passato schiavista, per nulla lontano, è tuttora difficile che un padre di colore accetti di buon grado una relazione della propria figlia con un bianco, discendente dei padroni cattivi, o viceversa di una figlia bianca con un misero discendente dei reietti più emarginati. Diversa sarebbe l'opinione dei genitori di un maschio.
Per un uomo di colore è sempre motivo di orgoglio esibire in pubblico una fidanzata o una moglie dalla pelle candida, e per un bianco non è affatto strano avere una relazione con una donna di colore (un po' di più, forse, sposarla, ma a Cuba non c'è una grande differenza).
Inoltre, è indubbio che i neri siano ancora lontani dall'essere degnamente rappresentati nelle posizioni di potere, nelle università o nelle professioni più esposte come quelle del turismo o delle comunicazioni. È vero che si sentono spesso nel gergo comune frasi dal contenuto fortemente razzista come "è così educato e fine che sembra un bianco" o "si comporta come un negro", e la cosa peggiore è che spesso frasi così sono pronunciate da persone di colore. Ma è vero anche che la maggior parte delle persone (soprattutto nelle città) non si sognerebbe neppure di selezionare le proprie amicizie o le relazioni sociali in base al colore della pelle.
Un fattore determinante in questo processo di miglioramento lo ha giocato, inoltre, la religione. La santería, infatti, originariamente patrimonio esclusivo della popolazione negra si è diffusa a tal punto da avere adepti e iniziati in ogni fetta della società, di ogni colore ed estrazione sociale, tanto da determinare una certa ascesa dello status dei vecchi di colore, depositari delle conoscenze originarie della Regla de Ocha.
Il problema è che è profondamente sbagliato cercare di analizzare l'esistenza del razzismo a Cuba secondo i canoni europei, o occidentali in genere. In Europa è facile indirizzare il pregiudizio razziale su persone che provengono da altri paesi e che, oltre a un diverso colore, parlano un'altra lingua, hanno costumi totalmente diversi e generalmente appartengono a strati sociali molto bassi.
A Cuba il razzismo ha un contenuto fondamentalmente esteriore. Il negro è identificato con il modello della persona generalmente poco istruita, violenta e chiassosa, ribelle e superstiziosa. Il bianco con la persona elegante, educata e amabile, razionale e discreta. È un modello che ho sentito spesso applicare da gente inequivocabilmente scura. Non c'è razzista peggiore dell'anziana mulatta che ha vissuto a servizio nelle case dei ricchi habaneros, ha ricevuto un'educazione di alta classe, ha appreso che cosa è lo stile e ha imparato a prendere le distanze dalle proprie radici africane.
I pregiudizi figliano pregiudizi e non è sufficiente una rivoluzione armata per farli diventare sterili. Continuano a riprodursi con le generazioni. In questi giorni all'Habana c'è Danny Glover a presiedere un convegno sull'importanza di dare spazio alla rappresentanza negra e india in America. I primi a crederci devono essere negri e indios.