Quando Pedro García Espinosa mi ha chiesto un titolo per la mostra che stava preparando a Bergamo, le parole che intestano questa pagina sono nate spontaneamente e senza ricerca. Sembrano senz'altro il nome di un film. Le migliori parole per presentare la più recente opera pittorica di un lavoratore e fondatore del cinema del suo paese, Cuba, nonché un riferimento ai suoi due grandi amori, il cinema e l'Italia. Il primo perché tutta la sua vita, da quando era quasi un ragazzino, è stata legata al cinema e il secondo perché la sua prima gioventù è trascorsa in Italia.
Garcia Espinosa per anni ebbe la responsabilità di sviluppare persone e mezzi per rendere reale la possibilità di una industria cinematografica a Cuba, e questo fu l'impegno al quale dedicò non soltanto le ore di lavoro, ma anche quelle che dovevano essere riservate alla famiglia e all'ozio. La passione per la realizzazione collettiva che un film comporta fu per lui qualcosa da anteporre a qualsiasi interesse personale. E questa grande passione, che nacque in un quartiere popolare dell'Avana dove García Espinosa dipingeva e sognava guardando i film di Chaplin in un'anonima sala cinematografica, trovò la sua concretizzazione in un impensato viaggio a Roma e una borsa di studio a Cinecittà in un momento di vero splendore del cinema italiano. Lì, il suo talento fece il resto e uscì, dopo qualche anno di studio e un'importante esperienza accanto al suo grande maestro Rossellini, da vero scenografo capace di soddisfare le richieste del più esigente dei registi. Tornò a Cuba, ma in Italia lasciò per sempre qualcosa di suo, non soltanto uno o tanti amori che voleva perpetuare nel nome di sua figlia o la copia dei grandi maestri della pittura davanti alle cui opere passava lunghissime ore o l'allegria di scoprire i grandi monumenti del passato nel suo deambulare per la Città Eterna. Quel giovane ragazzo sognatore diventò in quegli anni un uomo sicuro di se stesso, capace di dedicarsi, con tutta responsabilità, al compito e al grande sogno a cui voleva partecipare.
Il pittore che abitò in lui in tutti gli anni che seguirono si affacciava timidamente con il pennello in mano, a volte dipingendo una scenografia con tutti i dettagli come se fosse un interiore realista o una natura morta, altre in ritratti di compagni, amici e parenti che sembravano una fotografia perfetta del soggetto, oppure sperimentando con pigmenti che volavano e tingevano dei colori più assurdi le cose di casa e anche i brodi che bollivano in cucina. Adesso che García Espinosa pettina i suoi capelli più aldilà della fronte e ha lasciato ai suoi allievi giovani il lavoro del cinema, il pittore ha reclamato il suo posto, o per dirlo in altro modo, è passato a un posto così importante come lo scenografo cinematografico.
Se Garcia Espinosa sentiva una vera passione per il cinema, adesso è la pittura la sua ossessione creativa. Se prima lavorava senza orario, adesso dipinge senza fermarsi, perché soltanto chi si dona a se stesso può raccogliere qualcosa di trascendente. La sua opera non si ferma nell'epidermico; pur essendo bella, non è soltanto bella, pretende dire qualcosa fuori dall'estetica stessa. L'intorno e suoi personaggi sono le creature che diventano importanti grazie alla magia del trasferimento in opera d'arte, diventano messaggi per riflettere, per continuare il legame con l'artista fuori della visione dell'opera stessa, in un vincolo profondo che soltanto la vera arte, quella che non appella ai sotterfugi, può far germinare.
Curatrice: Sandra González
Bergamo — Gennaio, 2011